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L’archistar Casamonti: «Così la bioarchitettura ci riporta al Rinascimento»

di Sabrina Carollo
L’archistar Casamonti: «Così la bioarchitettura ci riporta al Rinascimento»

Il fondatore dello studio di architettura Archea con sedi in tutto il mondo, oltreché docente all’università di Genova: «Occorre un cambio di mentalità. Chi compra una casa ecologica deve capire che costa di più, ma sul lungo periodo consente un risparmio importante»

31 maggio 2023
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Un nuovo patto tra uomo e ambiente, che non si limiti a interventi sui singoli edifici ma che coinvolga un modo diverso di progettare e vivere interi territori. La visione di Marco Casamonti, fondatore dello studio di architettura Archea con sedi in tutto il mondo, oltreché docente all’università di Genova, è profonda, rinascimentale nel suo modo di porsi nei confronti della realtà e del tempo. Per lui, la bioarchitettura non si può limitare a singoli edifici ma deve essere il tassello di una rivoluzione di pensiero, politica e sociale. Un cambiamento di passo verso una più ampia "biocultura".

Architetto, quanto è importante oggi la bioarchitettura?

«La bioarchitettura è diventata una necessità perché ci siamo dimenticati il vero significato dell’architettura, che dovrebbe essere bio per definizione. In passato l’architettura era necessariamente ecologica. Un esempio su tutti, le ville medicee: venivano costruite con la facciata orientata a sud, davanti a un piazzale in ghiaia bianca su cui batteva il sole riscaldando la pietra, mentre il retro, verso nord, si affacciava solitamente su un bosco o un’area verde, creando così una differenza di temperatura che permetteva una ventilazione naturale all’interno».

Come è successo?

«Abbiamo pensato che i combustibili fossili consentissero tutto, creando un’emergenza ambientale. I due terzi dell’energia consumata nel mondo è usata per spazi abitativi: case ma anche uffici, scuole, ospedali. La bioedilizia ci consente di dimezzare il consumo energetico di un edificio, ma non basta. Dobbiamo considerare la questione in modo più ampio, complessivo, è necessario trovare un equilibrio tra uomo e ambiente, prendendo in considerazione l’intera città, il suo territorio, il consumo di suolo, il riciclo delle risorse, i nostri comportamenti complessivi. L’organizzazione urbanistica delle città è fondamentale: se costruiamo in periferia edifici nuovi sostenibili ma lontani da dove le persone lavorano, con i quotidiani spostamenti in massa si vanifica tutto il risparmio energetico ottenuto. Le singole azioni, se rimangono scollegate, sono inefficaci».

Le direttive europee sono chiare in merito alle prossime costruzioni, ma come ci si regola con i centri storici?

«In realtà nei nostri centri storici gli edifici sono comunque bio, perché magari le costruzioni non sono coibentate - anche se in realtà i muri antichi in pietra sono molto spessi e l’interno rimane termicamente isolato - ma le città erano densamente costruite, con strade piccole e strette percorribili a piedi, per cui la sostenibilità deriva dal panorama complessivo, dal fatto che si può limitare l’uso dell’auto. Inoltre, se anche nei centri storici non si possono mettere pannelli sui tetti di coppi e tegole, ci sono alternative: un esempio su tutti è il mercato centrale di San Lorenzo, uno degli edifici più grandi del centro di Firenze, la cui copertura è in rame ossidato verde, che potrebbe essere coperto da pannelli solari dello stesso colore, in modo da non alterare il paesaggio. Le nuove tecnologie ci vengono in aiuto: bisogna fare uno sforzo di immaginazione e trovare soluzioni diversificate».

Come procedere allora?

«È necessario un cambio di mentalità. Chi compra una casa ecologica deve capire che costa di più, ma sul lungo periodo consente un risparmio importante. I costruttori, gli investitori, si regolano sulle richieste di mercato: se i cittadini cominciano a non voler acquistare case che non rispettano certi parametri, così come apparecchi che non siano di classe A, anche chi costruisce e produce andrà in quella direzione. Certo, la questione va gestita politicamente e non lasciata alla buona volontà dei singoli: uno strumento può essere l’Esg, Environmental Social Governance. Se ogni attività, dalle aziende alle banche ai Comuni, fosse valutata sulla base dei benefici sociali e ambientali che apporta, e su questo rating venissero concessi vantaggi e premialità - fiscali ma non solo -, si incentiverebbe la diffusione di una mentalità diversa, e con essa di azioni globali positive. La questione è politica, anzi, geopolitica: non basta che l’Italia o l’Europa prendano provvedimenti simili, se India, Cina e Stati Uniti continuano a inquinare. Il problema dell’emergenza climatica è globale e deve essere affrontato in accordo tra tutti i paesi del mondo. Altrimenti continueremo a vedere i tifoni in Toscana»

Un passaggio epocale.

«Un passaggio politico e culturale. Dobbiamo imparare a registrare i nostri canoni estetici in relazione all’Esg. Le torri eoliche per esempio: dobbiamo smettere di pensare che deturpino il paesaggio e cominciare se mai a lavorare per renderle esteticamente più interessanti, proprio come ha fatto Terna nel Chianti con i tralicci disegnati da Foster. Il problema è che nessuno si occupa dell’impatto estetico, ma solo che siano efficaci a livello energetico. Bisogna combinare l’estetica con l’efficienza, altrimenti ci ritroviamo come nelle regioni del nord Italia dove il paesaggio è stato rovinato dalla logica del profitto. Oggi non c’è bilanciamento, ma solo integralismo: o efficienza o estetica. Vale anche per i pannelli fotovoltaici: esistono pannelli verdi, che non si vedono né da Google Map né dall’alto di una collina - li stiamo usando per il Viola Park - quindi senza impatto sul paesaggio, ma non vengono usati perché quelli tradizionali garantiscono dal 5 al 10% di energia in più. Il risultato però è che poi non vengono installati per nulla e si perde il 90% dell’energia verde».

A proposito di materiali, ha notato qualche soluzione recente particolare?

«Di materiali ne esistono molti, per esempio ci sono aziende in Italia che fanno il filo di nylon per le moquette con la barbabietola da zucchero e le reti da pesca riciclate. Fino a che però non ci saranno norme che vietano di usare i derivati del petrolio invece dei materiali di riciclo, queste soluzioni rimarranno poco diffuse. Lo stesso vale per esempio per gli interruttori, che dovremmo scegliere solo in plastica riciclata. Ma è giusto che il costo ricada sul singolo utente o sull’azienda? O piuttosto questo sforzo andrebbe premiato?».

Quali soluzioni ecologiche avete adottato nel Viola Park?

«Abbiamo fatto un uso molto limitato di cemento armato, usandolo solo per le fondamenta; abbiamo interrato almeno un piano per ogni edificio, e poi dal livello zero usato solo materiali totalmente riciclabili: acciaio, legno e vetro. Tutti i serramenti sono in legno e alluminio, i tetti sono compluvi che raccolgono l’acqua piovana convogliata poi in un lago e usata per irrigare i campi. Pannelli fotovoltaici, vetri particolarmente efficienti, all’interno del parco si gira solo con vetture elettriche. Ma soprattutto su un’area di 270.000 mq abbiamo costruito in superficie solo il 6-7%, lasciando a verde il resto: è probabilmente il centro sportivo più rispettoso dell’ambiente d’Europa, reso possibile, nonostante le scelte onerose, grazie alla visione della proprietà».

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