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L'INTERVISTA

Dal tumore al seno alla canoa: «Remare ci ridà il nostro corpo»

Ilenia Reali
Foto di gruppo per le Florence Dragon Lady e le Bimbe in rosa nel giorno della prima uscita “pubblica” sui fossi a Livorno. A destra Ilenia Pellegrini
Foto di gruppo per le Florence Dragon Lady e le Bimbe in rosa nel giorno della prima uscita “pubblica” sui fossi a Livorno. A destra Ilenia Pellegrini

Da quasi olimpionica ad allenatrice di una squadra di donne operate di un tumore. Ilenia Pellegrini:"Mi spoglio senza vergogna, le mie cicatrici sono il mio orgoglio"

29 agosto 2021
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Si nasce dall’acqua, dal liquido amniotico. In Toscana, a Firenze e a Livorno, dall’acqua si rinasce. Si ricomincia a muovere i primi passi in sicurezza, si prende consapevolezza di un nuovo necessario approccio alla vita, si impara a volersi bene e si supera la paura della morte. Non da sole. Due volte alla settimana – lungo l’Arno nel cuore della città medicea o nei Fossi o nello Scolmatore a Livorno – un gruppo di donne vestite di rosa pagaia sopra una lunga canoa dalla testa di drago.

Sono le squadre delle “Florence Dragon Lady” e a Livorno, delle neonate “Bimbe in rosa”. Donne operate al seno che sul dragone fanno riabilitazione dopo l’intervento chirurgico ma soprattutto fanno squadra. Poche attaccano al chiodo i remi, quasi tutte rimangono a far parte di un gruppo che le ha abbracciate nel momento più buio della vita con una cura che non è solo ginnastica ma è amicizia, cene insieme, confidenze, viaggi per le trasferte in giro per l’Italia per partecipare alle manifestazioni delle squadre gemelle.

Le “Bimbe in rosa” si sono costituite da poco. La prima manifestazione pubblica risale a qualche settimana fa, durante Effetto Venezia, quando si sono mostrate alla loro città. L’allenatrice e fondatrice della squadra, Ilenia Pellegrini, è una di loro. È un’atleta, una madre, una donna che ha bruciato le tappe: ha sfiorato le Olimpiadi a 15 anni e si è ammalata di tumore a 34. È guarita ed è rinata. «Ora sto bene, il seno me lo hanno ricostruito anche se non ho il capezzolo. Ma è niente rispetto alle altre. Mi spoglio senza vergogna, le mie cicatrici sono il mio orgoglio. Spesso, invece, quando le donne arrivano per chiedermi di partecipare agli allenamenti, si vergognano anche a dire che sono malate. Ed è proprio quando negli spogliatoi ci ritroviamo ognuna con le sue cicatrici che si compie il primo atto della guarigione, quella psicologica. Siamo tutte uguali».

Come nasce la riabilitazione con la canoa per le donne operate al seno?

«La pratica del Dragon Boat per le donne operate di tumore al seno nasce nel 1996 dalla volontà di un medico statunitense, McKenzie, che ha sperimentato, con un gruppo di donne pioniere, come, in contrasto con le teorie del periodo, il movimento ritmico e ciclico della pagaiata costituisse una sorta di linfodrenaggio naturale favorendo la prevenzione del linfoedema al braccio, il braccio gonfio trauma dell’intervento chirurgico. Oggi ci sono squadre in tutto il mondo».

Come nasce la sua passione per la canoa?

«Mio padre Enio è stato campione d’Italia di canottaggio. A me piaceva il pattinaggio ma ero una bimba grassoccia e a sette anni ho capito che non era il mio sport. Mio fratello Juri giocava già a calcio ed era bravo, ha giocato nel Livorno in prima squadra, e babbo che voleva trasmettere la sua passione ai figli puntò su di me. Nel 1991 sono stata campionessa d’Italia, ho partecipato ai campionati del mondo. Sarei dovuta andare alle Olimpiadi ma mi ruppi la tibia e non tornai ai livelli precedenti. Poi a venti anni smisi: non avevo voglia di allenarmi così duramente, volevo uscire con gli amici. Poi ho avuto mia figlia, Vittoria. Aprii un banco al mercato americano con i miei genitori e l’esperienza sportiva fu abbandonata anche se sono sempre rimasta molto legata ai miei allenatori».

A 34 anni, con la bimba piccolissima, la scoperta della malattia.

«Me ne accorsi per caso. Mi sentii una pallina al seno, era il giorno del quarto compleanno di mia figlia. Il 4 aprile. Andai subito a farmi visitare, conoscevo bene la dottoressa Manuela Roncella. Venne fuori che era un grosso tumore. Mi fecero la mastectomia totale. Io mi rasai subito i capelli a zero. La dottoressa quando mi vide mi disse: “Ma cosa hai fatto? Sei matta? ”. Le risposi: “Così non ci penso più”. Non mi sono mai arresa: meglio un giorno da leone che cento da pecora è il mio motto».

Una diagnosi di tumore al seno non è una passeggiata.

«Quando me lo hanno detto mi è passata tutta la vita davanti. Ero separata, avevo una bimba piccola. Tornai a casa dai miei genitori e subito andai dai miei allenatori, per me grandi amici. Con loro ho pianto tutte le mie lacrime ma, appena operata, quando avevo l’espansore al seno e non potevo ancora vogare è al club dei canottieri che ho fatto la mia vera riabilitazione. Andavo lì perché ci stavo bene. Poi ho ripreso a lavorare: tutti lavori che mi consentissero di passare molto tempo con la bimba perché, dopo la malattia, le priorità cambiano. Ho ripreso ad allenare, ho capito che la mia casa era lì. Quell’odore, quello che sento dall’infanzia, mi fa stare bene».

E come si è arrivati alla squadra delle Bimbe in rosa?

«Mia figlia Vittoria fa canoa, è brava, e frequentando i campi di gara di tutta Italia ho ritrovato tanti amici dei temi in cui gareggiavo. Mi hanno raccontato dei dragoni, delle città in cui esiste questa realtà. E ho pensato che fosse bello dare la possibilità alle altre donne di frequentare il mondo del canottaggio, di avere anche loro questo rapporto con l’acqua. Sono andata dal presidente del Canoa Club Livorno e gli ho detto: “Hai me, l’allenatrice, i fossi, il mare. Io so cosa significa aver avuto un tumore. Facciamolo».

Facile a dirsi...

«C’era da trovare i soldi per le barche. Agip Petroli ci ha comprato due dragoni da dieci. Abbiamo cominciato con quattro donne. La prima “bimba” è stata Rita, operata come me, aveva la figlia che vogava con mia figlia. All’inizio eravamo in quattro, si usciva con una polinesiana da mare. Ridevamo come delle matte, si stava insieme. Si litigava anche, io dico le cose in ghigna..., non mi metto i guanti e non mi nascondo. Tra alti e bassi siamo arrivate a essere in 22, con qualche amica non operata. Si va a cena tutte insieme e il giorno dopo le faccio allenare…».

Qual è il segreto?

«Si scopre che siamo vive. E quando lo capisci non smetti più di ridere. Insieme parliamo dei nostri problemi, si creano amicizie, ci prendiamo in giro. Siamo tutte nella stessa barca, letteralmente. Se arriva una donna nuova che fa la radio o la chemioterapia la “saliamo” in barca… Lei non ce la fa a remare? Noi la portiamo lo stesso. Noi voghiamo per lei, ecco: “noi ci siamo”. Sei del gruppo, non sei sola».

L’8 agosto avete organizzato la prima “passeggiata” nei fossi durante Effetto Venezia con a bordo una cantante. La prossima iniziativa?

«Il 12 settembre organizziamo un primo memorial per Irene Busonero. Era una musicista, è morta di un tumore a 30 anni. Poi parteciperò al progetto di Annamaria Mazzini. Dipinge corpi deturpati, trasforma il cancro in un capolavoro. Farà un calendario di donne che hanno avuto il cancro. È stato un onore per me. L’ho conosciuta a Roma, da quando si è sparsa la voce che anche Livorno ha una squadra ci chiamano da tutta Italia».

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