Il Tirreno

Le reti abbandonate killer dei nostri mari

di Luca Balestri
Le reti abbandonate killer dei nostri mari

Falleri: «Partiamo dalle segnalazioni dei sub poi studiamo come recuperare corde e nylon»

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Come si tolgono le reti da pesca abbandonate nei fondali marini? Qual è il procedimento che porta alla loro rimozione? Lo ha spiegato al Tirreno Massimiliano Falleri, Responsabile della divisione subacquea di Marevivo Italia, organizzazione no profit che ha al centro della sua azione la tutela del mare e dell’ambiente. Per capire la dimensione del fenomeno delle reti fantasma, basti pensare che in vent’anni l’organizzazione ha rimosso quindicimila metri di reti. «Noi partiamo da delle segnalazioni, che arrivano di solito dalla comunità subacquea. I sub trovano una rete abbandonata, o altri attrezzi da pesca, e Ci segnalano dove si trovano», introduce la procedura Falleri. Il fatto che le segnalazioni arrivino solo dai sub, però, «è problematico. Perché i sub si immergono solo in alcuni punti, una parte piccolissima del mare -Falleri-. Molto più piccola rispetto ai punti in cui operano i pescatori». Una volta reso noto il punto della rete, gli operatori, tutti sub tecnici volontari, iniziano l’operazione. «Valutiamo la metodologia dell’intervento di rimozione e di asportazione dal fondale -ancora Falleri-. Dobbiamo capire quant’è lunga la rete, e come arrivarci». Il numero della squadra di sub, per la rimozione di una rete da pesca, conta dagli otto ai dieci sub. «Teoricamente un regolamento europeo obbligherebbe i pescatori, una volta persa la rete, ad andare agli uffici competenti della Guardia costiera per denunciare la perdita. E a questo punto il pescatore dovrebbe pagare la spesa di rimozione», la procedura. Ma è difficile che i pescatori denuncino lo smarrimento della rete.

«Ci sono condizioni particolari, dove magari il pescatore ha utilizzato una rete da pesca in un punto in cui non la può utilizzare. O dove chi pesca ha usato delle tecnologie di pesca illegali. Ecco perché i pescatori non denunciano». Un incentivo per far sì che vengano scoperte più reti abbandonate? «Un primo modo sarebbe passare attraverso le associazioni di categoria. Così facendo, l’associazione potrebbe contattare Marevivo, senza dare però il nominativo di chi ha abbandonato la rete -la proposta-. E poi servirebbe una specie di chip sulle reti da pesca, in modo che una volta che si ritrova la rete smarrita, si possa risalire al proprietario». Se una volta le reti erano fatte di canapa o lino, oggi è il nylon il materiale principale che le compone. «Le nuove reti sono più resistenti e meno costose. Ma nell’arco della sua vita il nylon si deteriora e diventa prima una microplastica, poi una nanoplastica. E noi arriviamo ad ingerire questi materiali».

Il prezzo maggiore che si paga per le reti è quello ambientale. Ma le operazioni di Marevivo hanno anche un costo economico. «Grazie all’aiuto di diversi donatori riusciamo a sopperire a queste spese. La rimozione delle reti ha costi pazzeschi. Perché i volontari devono scendere con attrezzature subacquee costose, e c’è bisogno di barche d’appoggio per i subacquei -evidenzia Falleri-. E poi c’è il costo dello smaltimento, elevatissimo. Il novanta percento delle volte la rete non è riciclabile, poi». L’ultima operazione di Marevivo in Toscana è stata la rimozione di una rete fantasma di cinquanta metri all’Argentario, a Porto Santo Stefano, a fine giugno. «In passato abbiamo tolto reti anche all’isola del Giglio, a Giannutri -conclude Falleri-. Nella seconda metà dell’anno toglieremo una rete alle secche della Meloria, a Livorno». 
 

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