Il Tirreno

Schermo e poltrona

Oscar indigesti

di Fabio Canessa
Oscar indigesti

Dopo i premi di Hollywood tanti ritorni in sala e in tv ma i film migliori sono quelli rimasti senza statuette

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I premi, soprattutto l’Oscar che rappresenta quello più prestigioso e ambito nel campo del cinema, hanno anche il compito di educare il gusto degli spettatori, indicando le opere migliori dell’anno e compilando una gerarchia che possa orientare il pubblico nella scelta dei film da vedere in sala o sulle piattaforme. Per questo un pensiero commosso va a tutti coloro che, spinti e incuriositi dalla vittoria di ben sette Oscar, oltretutto quelli di maggior peso (miglior film, regia, sceneggiatura, montaggio e tutti e tre gli attori principali) andranno al cinema a vedere il trionfatore di quest’anno.

Sette statuette?

Mal gliene incoglierà, perché “Everything everywhere all at once”, scritto e diretto dai Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert all’anagrafe) è, a essere buoni, un ghiribizzo curioso tirato per le lunghe o, a essere severi, un pasticcio indigesto e sgangherato assai noioso.

Tutto, dappertutto, contemporaneamente, come dice il titolo: una fulminante definizione del Multiverso, cioè l’esistenza di mondi paralleli con la possibilità di passare dall’uno all’altro attraverso varchi o porte speciali. L’idea, portata al successo dalla Marvel con il dottor Strange, viene qui portata all’eccesso in un caotico scatenarsi di varianti esistenziali e di generi cinematografici che si trasforma, dopo pochi minuti, in uno stucchevole guazzabuglio di stili. In Italia finora è stato un clamoroso flop di pubblico, con incassi miseri e basso gradimento, mentre i critici, forse per non fare la figura dei nonni sorpassati dalle nuove mode, lo hanno elogiato scrivendo che piacerà ai giovani, i quali però lo hanno disertato quanto i vecchi.

Rimarranno nel tempo

Dopo il Leone d’Oro di Venezia al documentario “Tutta la bellezza e il dolore”, che ha incassato da noi appena 100mila euro, anche questi Oscar non serviranno certo a riportare la gente al cinema. Peccato, perché tra i candidati c’erano film bellissimi, come “The Fabelmans” di Steven Spielberg e “Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh, usciti entrambi a mani vuote dalla premiazione ed entrambi imperdibili per ogni genere di spettatore: piaceranno sia ai cinefili amanti del film d’autore che al pubblico popolare e rimarranno nel tempo come classici del cinema.

Insomma, stavolta usate gli Oscar come guida all’incontrario: evitate i vincitori e non perdetevi gli sconfitti. Potete fare un’eccezione per “The whale” di Darren Aronofsky: di impianto troppo teatrale e di struttura troppo patetica, il film non è un capolavoro, ma i due Oscar per il miglior attore e per il miglior trucco sono meritati. Brendan Fraser, mai così bravo, ci ha messo il quintale del suo corpo e il trucco è riuscito ad aggiungergli un altro quintale per completare lo straziante ritratto psicologico di un obeso dal cuore d’oro ma dall’aspetto mostruoso e dall’esistenza a rotoli.

Lontano dal conformismo

Mentre i premi maggiori sono andati dove li portava il cuore dei giurati, cioè la volontà di privilegiare gli asiatici (che i migliori interpreti fossero Michelle Yeoh e Ke Huy Quan non lo pensa nessuno) quelli tecnici risultano indiscutibili. È lì, lontano dal conformismo dei contenuti, che troviamo la qualità formale del linguaggio delle immagini. Chi può negare che i migliori effetti speciali li abbiamo visti in “Avatar: la via dell’acqua” di James Cameron? Che il miglior film d’animazione dell’anno sia “Pinocchio” di Guillermo del Toro? Che i migliori costumi appartengano a “Wakanda forever”? Che le migliori scenografie e fotografia fossero quelle di “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Edward Berger, già visibile su Netflix, premiato anche come miglior film straniero e migliore colonna sonora? Tutte opere da recuperare per chi non le abbia ancora viste, come pure “Elvis” di Baz Luhrmann, “Triangle of sadness” di Ruben Östlund e “Close” di Lukas Dhont, anch’essi belli, candidati e perdenti.

Giustamente perdenti

Ci sono infine quelli brutti e perdenti: il deludente “Babylon” di Damien Chazelle, l’irrisolto “Empire of light” di Sam Mendes, lo scipito “Red” della Pixar e il pessimo “Blonde” di Andrew Dominik. Sono stati snobbati dalla giuria dell’Academy e fareste bene a snobbarli anche voi.
 

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