Il caso
Franco Baresi, la leggenda rossonera con la Toscana nel cuore: «Grazie a don Celentano sono diventato un calciatore»
La bandiera del Milan si racconta: «Rivera mi fece avere il premio per il primo scudetto al Milan, con quei soldi riuscii a comprare la mia prima macchina...»
Cinquant’anni di Milan per uno dei difensori più forti della storia del calcio. Osannato, amato e celebrato per essere stato un campione pieno di umanità, buon senso, serietà e modestia che non ha mai tradito le sue umili origini contadine. Una bacheca vivente Franco Baresi, il Kaiser Franz con la sua mitica maglia, la numero 6, prima in Italia ad essere ritirata da un club sullo stile del basket Nba. Lui, che da uomo di fede ha letteralmente venduto l’anima al Diavolo rossonero, ha compiuto 65 anni e fa impressione scorrere il suo palmares: 6 scudetti (1978-79, 1987-88, 1991-92, 1992-93, 1993-94, 1995-96), 3 Coppe dei Campioni (1989, 1990, 1994), 2 Coppe Intercontinentali (1989, 1990), 3 Supercoppe Europee (1989, 1990, 1995), 4 Supercoppe di Lega (1989, 1992, 1993, 1994), 1 Mundialito per club (1987), 1 Mitropa Cup (1982), 2 promozioni in Serie A (1980-81, 1982-83).
Di strada ne ha fatta la leggendaria anima rossonera: dai campi coltivati a quelli di calcio sino ad arrivare, senza accusare vertigini, lassù sul tetto del mondo con il “Milan degli Invincibili” con quella maglia indossata da leader indiscusso – e dal 1982 anche da capitano – per 719 volte in gare ufficiali realizzando 33 reti (21 su rigore). Per Baresi – oggi vice presidente onorario del club che è stato tutta la sua vita – quel pallone che rotola è stato il mezzo per inseguire i suoi sogni, uno strumento per un riscatto sociale e per una crescita personale e culturale che lo ha portato a viaggiare e a conoscere mondi e persone di cui ignorava l’esistenza: «Vorrei continuare ad essere d’aiuto a chi ne ha bisogno. Nel ricordo dei miei primi momenti vissuti a Milanello seguo con attenzione e interesse i ragazzi del settore giovanile anche se questo calcio mi emoziona di meno perché la fisicità ha tolto spazio alla fantasia e alla magia del gioco. Dobbiamo però fare i conti con la storia: rispetto agli anni ’60 quello in cui viviamo è un altro mondo. Per noi dopo la famiglia e la scuola c’era solo il pallone, mentre oggi i ragazzi non si focalizzano più solo su una passione: c’è internet, la playstation, i social e quello smartphone da cui non si staccano mai. Questa gioventù è più sveglia di come eravamo noi alla loro età, ma al contempo vengono create intorno molte più pressioni e aspettative e devono essere capaci a non farsi schiacciare. Sono convinto che gli under 21 del Milan possono davvero aiutare il club a rinverdire i fasti del passato. Stanno sbocciando talenti che hanno fatto capolino in prima squadra. Penso a Camarda che ha debuttato in Champions a 17 anni: ha attitudine ed equilibrio».
Il calcio di Baresi inizia dall’Oratorio.
«Sino a 14 anni ho vissuto in un casale di campagna a Travagliato, diecimila anime nella bassa bresciana, con mamma Regina (nome imposto alla nipote, figlia di Giuseppe colonna dell’Inter degli anni ’80, e capitano della formazione femminile nerazzurra) che curava la casa in modo maniacale, mio babbo Terzo, coltivatore agricolo, e quattro fratelli (oltre a Beppe, Angelo, Lucia ed Emanuela). Facevamo il bagno nelle tinozze della stalla tra mucche e trattori perché d’inverno lì faceva più caldo. Non potevamo permetterci di andare allo stadio e in casa non avevamo la tv tanto che la prima partita, l’epica Italia-Germania 4-3 ai mondiali del Messico, l’ho vista da un parente quando avevo 10 anni. Dopo la scuola l’unico momento di svago era il pallone con l’aia e il muro della cascina a delimitare i confini. Nel 1968 è arrivato un sacerdote che ci ha cambiato l’esistenza: padre Piero Gabella. Lo avevamo ribattezzato don Celentano per la modernità nel modo di interpretare il messaggio di Cristo. All’oratorio San Michele fondò l’Uso Travagliato, società di settore giovanile che è stata un’autentica palestra di vita. Erano obbligatori due allenamenti la settimana e la presenza alle funzioni religiose domenicali. Non esistevano le primedonne: dai ragazzi più bravi calcisticamente si pretendeva di più. La forza delle squadre era il gruppo che doveva sostenere e aiutare chi giocava di meno. Io e i miei fratelli siamo cresciuti con quelle regole. Pensi che il curato e gli allenatori prima delle gare si raccomandavano di andare a letto non più tardi delle 10 di sera. Un consiglio che ho seguito nelle mie 23 stagioni in rossonero. L’Uso Travagliato guidato da Guido Settembrino, che è stato il mio mentore, negli anni Settanta vinceva i tornei giovanili della Lombardia e molti osservatori di Milan, Inter, Atalanta e Brescia venivano a vederci. Non a caso mio fratello Beppe e Pancheri finirono in nerazzurro e io in rossonero».
La fede l’ha accompagnata sempre nella sua vita di uomo e calciatore.
«Ho perso mia mamma a 14 anni per una malattia e mio padre in un incidente stradale due anni dopo quando ero già al Milan che è stata la mia seconda famiglia. La religione è stata un porto sicuro nei momenti difficili dell’esistenza. Sul mio comodino tenevo spesso una Bibbia cercando in quelle parole il giusto modo di vivere per essere di esempio e di aiuto agli altri. La mia emozione più grande fuori dal rettangolo verde è quella di aver avuto la fortuna di conoscere tre papi: Giovanni Paolo II lo incontrai a Roma in occasione del primo scudetto rossonero, Benedetto XVI a San Siro e Francesco a Roma in una udienza con la Fondazione Milan. Forse Wojtyla è quello che mi ha colpito di più per l’umanità del suo messaggio universale. Spero di poter incontrare il nuovo pontefice Leone XIVche dovrà guidare la chiesa e i fedeli in un periodo storico estremamente difficile per l’umanità dove l’odio e le guerre paiono avere il sopravvento».
Baresi: un lombardo che ama la Toscana …
«È la mia seconda casa. Il primo grande amico quando approdai a Milanello è stato un ragazzo di Orbetello: Gabriello Carotti. Il suo aiuto fu fondamentale per vincere la proverbiale timidezza. È stato un ottimo centrocampista e ha debuttato nel Milan giocando in A e B, ma non ha avuto la mia stessa fortuna. Dopo mezzo secolo ci sentiamo ancora oggi. Mia moglie, Maura Lari, è toscana. La conobbi durante una trasferta. Con la squadra ci fermammo al ristorante ‘Piccolo Alleluja’ di Montevarchi. Lei era la figlia del proprietario del locale e serviva ai tavoli. Il gancio fu il massaggiatore Paolo Mariconti, il mio secondo papà che mi aveva ribattezzato Piscinin. Si accorse che fissavo con insistenza quella bella ragazza bionda e indicandomi si rivolse a lei “Signorina, per favore serva prima lui perché è il capitano”. Diventai rosso, ma da quel giorno Maura e io non ci siamo più lasciati. Qualche anno dopo il matrimonio abbiamo acquistato una casa a Forte dei Marmi. In campo poi ricordo sempre con piacere le battaglie contro la Fiorentina al Franchi. Antognoni, Batistuta e la coppia Baggio-Borgonovo ci facevano ammattire».
Ha debuttato in A accanto al mito Rivera vincendo lo scudetto della stella.
«Una persona straordinaria per la sua semplicità. Mangiavo con lui e Bigon che mi hanno sempre tutelato. Per un diciottenne come me che guadagnava 12 milioni non era stato previsto il premio scudetto (50 milioni) come per gli altri, ma ricordo che Gianni s’impose con il presidente affinché potessi riceverlo anch’io. Con quei soldi, fresco patentato, ho comprato la mia prima auto: una Golf grigia».
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