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Basket, il Premier dei canestri: «Ho giocato con i migliori. Nella finale di Livorno sbagliai e non ci ho più messo piede»

di Luca Tronchetti
Roberto Premier e un momento della rissa al termine di Livorno-Milano del 1989
Roberto Premier e un momento della rissa al termine di Livorno-Milano del 1989

I 65 anni del grande tiratore: «Inizialmente mio babbo mi voleva vedere giocare a pallone. Ma a me non piaceva: troppo popolare»

25 gennaio 2023
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Da quel torrido 27 maggio del 1989, l’Ariete di Spresiano non è più tornato in Toscana e tantomeno a Livorno. Quella contestata vittoria con la Libertas (allora Enichem) – l’ultimo scudetto in maglia Olimpia Milano – ha segnato una splendida carriera che lo ha visto protagonista per otto stagioni con la casacca delle “Scarpette rosse” conquistando dal 1981 al 1989 due Coppe dei Campioni, cinque scudetti, due Coppe Italia e una coppa Korac contrassegnate da 300 presenze e 4814 punti, secondo marcatore di ogni epoca del club fondato nel 1936 dal Conte Borletti.

Sono passati più di 33 anni da quel giorno e oggi Roberto Premier - ala-guardia tiratrice, sinonimo di talento e aggressività e che ha passato 20 anni a mettere la palla nel cesto - compie 65 anni. Li festeggia a cena con la moglie Cinzia in una spiaggia di Phuket in Thailandia, in vacanza. «Cosa faccio adesso? D’estate gestisco un Bed and Breakfast, poi aiuto mia moglie avvocato occupandomi della parte informatica legata al processo telematico e per non annoiarmi continuo a occuparmi di pallacanestro “cazzeggiando” come opinionista in una tv di Udine». Di quel post partita nel catino del PalAllende il cecchino veneto, che anche quel pomeriggio realizzò i suoi 20 punti, cancellerebbe quel gesto all’uscita dal parquet con le dita medie alzate verso i tifosi labronici. «Quella cosa lì non la rifarei. Ho fatto penitenza e ho giustamente subito anche un processo dalla federazione. Sono stato un coglione a reagire in quel modo e soprattutto a non allontanarmi dal parquet. Al suono della sirena mi trovavo al centro del campo e mi sono avvicinato al tavolo cercando di capire se il canestro di Forti era valido o meno, quando i tifosi di Livorno hanno fatto invasione. Mi sono trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Colpa mia, del mio carattere, ma sono stato aggredito alle spalle dall’addetto alla tribuna stampa dell’Enichem che mi ha dato un cazzotto alla nuca. Una vigliaccata che non t’aspetti e ti porta giocoforza a reagire. Non ci ho visto più ed è nata una scazzottata epica in diretta tv. Siamo finiti avvinghiati a terra». Dal campo Premier non aveva visto l’arbitro abruzzese Zeppilli indicare che il tempo era scaduto e il canestro dell’ala labronica non era valido: «Per me avevamo perso. Il mio sguardo in quegli interminabili secondi incrociava Grossi, l’altro direttore di gara, che aveva fischiato pure un tiro libero per Livorno. Negli spogliatoi ascoltavo i festeggiamenti degli avversari e mi prendeva male: mi sentivo becco e bastonato». Ma nel giro di un quarto d’ora l’amarezza si trasforma in felicità: «Arriva alla chetichella il gm Toni Cappellari che dalle tasche dei pantaloni tira fuori il referto rosa degli arbitri con il verdetto definitivo. Siamo noi dell’Olimpia Milano i campioni d’Italia. Ci siamo abbracciati, ma senza scene di giubilo perché fuori si stava scatenando l’inferno. Da quel giorno non ho più rimesso piede a Livorno, ma sono sicuro che per una parte della città, quella che tifa Pielle, sono diventato un idolo e se un giorno tornassi mi farebbero cittadino onorario».

Dall’oratorio alla serie A

Il suo destino era segnato: funzionario di banca come il padre che aveva scalato tutti i gradini sino a ricoprire il ruolo di direttore della Banca Cattolica del Veneto. Dopo le scuole dell’obbligo infatti si era iscritto all’istituto tecnico commerciale di Treviso: «Inizialmente mio babbo mi voleva vedere giocare a pallone. Ma a me non piaceva: troppo popolare. A nove anni su un depliant scopro che si tengono corsi di minibasket. Mi iscrivo, mi piace, ci prendo gusto e inizio con le squadre minori. I primi canestri nel campetto dell’oratorio con l’Esperia Treviso. Salto gli Juniores e gioco subito in C, sempre nella Marca, con la Vigor Sacro Cuore». E lì Premier rischia di smettere: «Mi aveva chiesto Cantù, ma la società con cui ero tesserato non mi ha lasciato andare. Mi hanno tolto un sogno e allora mi sono impuntato e ho riconsegnato il materiale». Grazie alla sorella, Maria Luisa, di quattro anni più giovane, ma già in nazionale cadetta con la maglia di Treviso, Premier torna sul parquet e in tre anni debutta in A1: «É stata lei a parlare di me a Giulio Pagnossin, patron delle ceramiche e imprenditore di riferimento nel mondo dello sport che era il proprietario della squadra maschile. Acquistò il mio cartellino e a 18 anni iniziai a giocare in D da ala grande o anche da pivot visto che ero alto 1,96. Poi Pagnossin acquistò il Gorizia e passai in A2 con Mc Gregor in panchina che ci mandava in campo utilizzando un solo schema: “Andate e divertitevi”».

Meneghin e D’Antoni

Negli anni Ottanta non c’erano agenti e procuratori sportivi e nel passaggio alla Olimpia Milano (targata Billy, Simac, Tracer, Philips) c’è tanta farina del suo sacco: «Sulla Gazzetta lessi un trafiletto in cui si accostava il mio nome al club milanese. Siccome da Gorizia non mi facevano sapere nulla presi il telefono e chiamai il club meneghino chiedendo di parlare con il gm Cappellari. Senza troppi giri di parole chiesi se erano davvero interessati al sottoscritto perché io sarei andato di corsa. Morale? L’ultimo giorno di mercato dopo un infinito tira e molla mi ritrovai a giocare con quel meraviglioso gruppo di campioni». Tra loro c’era uno dei suoi idoli: Dino Meneghin: «Da ragazzo tifavo Varese e lo avevo visto giocare anche dal vivo. Quando me lo sono visto davanti tra un po’ svengo. Per otto anni sono stato suo compagno di camera nei ritiri. Ho dormito più con lui che con mia moglie».Mike D’Antoni, il pensiero più veloce dell’azione: «Al primo allenamento cinque contro cinque il playmaker mi dice di tagliare in mezzo all’area. Eseguo il compito e ricevo la palla a spicchi in piena faccia. Mi arrabbio e allora Dan Peterson sospende la seduta e mi parla. “Guarda che tu devi giocare sempre con le mani aperte perché Mike passa la palla senza guardare in modo da disorientare il suo avversario e sapendo di trovarti libero in una certa posizione”. Una volta oliato il meccanismo con Dino e Mike è stato tutto più facile: blocco di Meneghin, palla ricevuta da D’Antoni e se sbagli il tiro allora è meglio che cambi sport perché era come fallire un calcio di rigore».
 

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