Il Tirreno

L'INTERVISTA

Lucia, donna del calcio: «Servono più tutele»

ILARIA BONUCCELLI
Lucia Di Guglielmo
Lucia Di Guglielmo

Lucia Di Guglielmo, 23 anni, capitana delle Empoli Ladies (serie A), azzurra della Nazionale di calcio femminile di Milena Bertolini, racconta la sua storia e i suoi progetti. Una vita tra il pallone e gli studi per la magistrale in chimica. E l’impegno per la parità di diritti nello sport

07 marzo 2021
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Dice Lucia Di Guglielmo, capitana delle Empoli Ladies – calcio, Serie A – che da bambina non comandava affatto in casa con i fratelli. Questa azzurra della Nazionale di Milena Bertolini – che a Firenze contro Istraele ha conquistato la qualificazione agli Europei del 2022 – era la maggiore di tre, ma «le prendevo sempre da mia sorella Gabriella». Non è una scusa. Neppure una giustificazione. Sono i fatti puri e semplici. Lucia è così: dritta al punto. Quando è facile e quando è difficile. Perché è abituata che il campo non si abbandona mai. E che si combatte per tutte. «Per i diritti di tutte. Vorrei trasmettere questo messaggio alle ragazze che verranno dopo di me: tutto quello che a loro appare scontato è stato guadagnato. E loro dovranno continuare a lottare per non perderlo». Anche ora che Gabriele Gravina, presidente nazionale della Figc, promette il professionismo femminile dalla stagione 2022/2023. In quella stagione Lucia Di Guglielmo, una passione per la lettura (Baricco e i gialli) avrà fra i 24 e i 25 anni. Con la fascia di capitano, avrà acquisito una lunga familiarità: prima in serie C e B per il Castelfranco; poi con l’Empoli Ladies in A. Stessa società, serie diverse. Forse si sarà anche laureata in Chimica dei materiali: la laurea (breve) a Pisa in Chimica per l’industria d’ambiente l’ha già presa. Con 110 su 110.

Ma da bambina a che cosa giocava?

«Con tutto, dalle bambole alle macchinine. Mi piacevano i libri con le immagini, disegnavano, coloravo. Poi giocavo anche a palla. Giocavo pure con i miei fratelli: Gabriella e Francesco, calciatore. Gabriella invece, gioca a pallanuoto».

E li comandava?

«Macché: le prendevo da mia sorella. Fisicamente è sempre stata più grande di me. Io la mettevo sulla furbizia».

Come si è scoperta la passione per il calcio?

«Giocando all’aperto: il calcio era uno dei giochi più gettonati. A Navacchio (Pisa) dove abitavo c’era una piazzetta: ci trovavamo lì, il pomeriggio, bimbi e bimbe. Qualche anno dopo è stato realizzato un parco giochi e ci siamo spostati. Giocavano tutti insieme: non c’erano ruoli. Non ero l’unica femmina: eravamo in tre o quattro. C’era pure mia sorella. Era tutto molto naturale».

E in una squadra?

«Quando avevo sei o sette anni, il mio migliore amico, Mattia Boccaccio, che giocava in una squadra vicino a casa, mi disse: “Dai, vieni a provare dove gioco io. Sei brava”. Non feci alcuno sforzo. Gli sport che avevo provato fino a quel momento non mi erano piaciuti e andai a provare. Era la polisportiva Arci Zambra. Mi presero sì: non era un provino, prendevano tutti i bambini e le bambine che volevano giocare».

E i suoi genitori che cosa le hanno detto della sua scelta?

«Mio padre era un po’ scettico: mi ha fatto notare che ero un po’ schizzinosa; la mia mamma, invece, era tranquilla. Lei ama tutti gli sport: li segue tutti. Era davvero contenta che facessi uno sport, qualunque fosse. Comunque mio padre si è ricreduto subito: oggi è una delle persone che mi segue di più».

Quando ha pensato che davvero il calcio sarebbe potuta diventare la sua professione?

«All’inizio di quest’anno. Fino all’anno scorso mi sembrava di condurre una doppia vita: noi ci allenavamo la sera e il giorno lo passavo all’università. La mia vita, quindi, non è mai stata solo il calcio. Quest’anno ci alleniamo la mattina. Poi il 19 novembre 2020 c’è stata anche la prima convocazione in nazionale (nella partita contro la Bosnia): anche quello mi ha fatto pensare che forse potevo investire nel calcio come professione».

Ma non ha lasciato gli studi universitari. Cosa vorrebbe fare da grande?

«Bella domanda. Mi piace molto quello che sto studiando, mi piace il campo delle nuove tecnologie. Non riesco ancora a vedermi in un ambito specifico, ma mi piace di avere questa doppia vita, questa doppia possibilità, completamente diversa dal calcio».

Non si pensa come allenatrice o dirigente sportiva? Molti colleghi calciatori convertono così la loro carriera.

«I miei studi non escludono queste possibilità. Se un giorno volessi restare nel mondo del calcio, penso che potrei tentare questa carriera visti gli anni di esperienza. Ma mi piace avere un’alternativa. Mi è nato questo interesse e lo coltivo. Fino a qualche anno fa mi sono sempre detta: dovrò scegliere lo studio a un certo punto e lasciare il calcio perché visione e condizioni lo imponevano».

Le condizioni economiche?

«Sicuramente ero spinta in quella direzione, anche perché fino a qualche anno fa non mi potevo immaginare a vivere di calcio».

E oggi?

«Oggi è diverso, si inizia ad andare in quella direzione lì. Anche ragazze più giovani di me possono pensare a vivere di calcio. Non è magari così scontato, ma si può pensare di poter vivere di calcio nel momento in cui giochi. E magari anche di riuscire a metterti qualche cosa da parte per il futuro».

Eppure il calcio femminile non è riconosciuto come professionistico.

«Questo mancato riconoscimento comporta assenza di tutele. Io sono anche la rappresentante Aic (Associazione italiana calciatrici) della squadra dall’anno scorso e quindi ho iniziato ad affrontare questi temi. L’obiettivo è arrivare a ottenere il riconoscimento del professionismo per avere più tutele “sociali”, non tanto per il livello economico. Anche quello è un obiettivo. Prima di arrivare a colmare la differenza economica, se mai ci si arriverà, ci sono altre tutele e diritti da conquistare».

Quali sono le vostre priorità?

«La pensione. Ci sono calciatrici che vivono di questo fino a 30-35 anni e poi si ritrovano a non aver versato nulla per la pensione e il loro mantenimento futuro quando smettono. Pure a livello assicurativo abbiamo ancora conquiste da fare».

A 23 anni come si contribuisce a cambiare il suo mondo?

«Mi piacerebbe molto, come capitano di una squadra, riuscire a trasmettere alle ragazze, anche a quelle che verranno, tutto quello che è stato fatto per loro: perché saranno loro a beneficiarne più di noi. Io ne sto beneficiando già più di chi è venuto prima di me. Credo che sia importante far arrivare questo messaggio: far capire che tutto quello che può apparire scontato è stato guadagnato e che comunque saranno loro quelle che dovranno continuare a lottare per i loro diritti. Anche quando raggiungi obiettivi importanti devi batterti per mantenerli in quanto donna, perché al primo errore trovano un motivo per toglierteli».

Oppure ti obbligano ad accettare atteggiamenti molesti. Le è accaduto?

«Mi reputo abbastanza fortunata perché sia nella squadra di ragazzi nella quale sono cresciuta sia in seguito durante la mia carriera non ho avuto brutte esperienze di questo tipo. Ma so di mie colleghe che non sono state così fortunate: basta guarda sui social del calcio femminile per capirlo. Penso che sia un problema radicato nella nostra cultura. O meglio penso che nella nostra cultura sia più accentuato rispetto ad altre realtà. Non si riesce ad apprezzare il calcio femminile per quello che è: c’è sempre un commento di critica, c’è sempre chi lo vuole paragonare al maschile, anche se non è possibile».

Perché?

«Come per tutti gli sport, ci sono differenze dovute alle differenze fisiologiche fra uomo e donna: è assurdo azzardare un paragone basandosi solo su quanto possa essere forte o veloce una calciatrice, invece che soffermarsi sulle doti tecniche che invece ci sono nel calcio femminile come è stato dimostrato ai Mondiali. Mi sento delusa, provo rabbia. Non so come si posa fare un passo avanti se non continuando a fare quello che amiamo, cercando di convincere sempre più persone ad apprezzarlo».

Il linguaggio violento, offensivo non contribuisce. Come i dirigenti della Figc che dicevano di non dare i soldi “a quelle quattro lesbiche” del calcio.

«Sicuramente quando ci si trova di fronte a questi commenti è anche difficile non abbassarci a certi livelli. Penso siano inqualificabili. Quale battaglia stiamo combattendo se anche chi dovrebbe stare dalla nostra parte rema contro di noi? È anche difficile rispondere a volte se non cercando di restare professionali, per quanto non siamo considerate professioniste. Vogliamo che il nostro movimento venga apprezzato per quello che è e per i valori che porta avanti».

Lei parla sempre di valori. Da capitana, giovanissima, che cosa prova a trasmettere alla sua squadra?

«All’inizio, anche da vice-capitana ho guardato con ammirazione alle calciatrici che sono state mie capitane. Ho cercato di prendere i valori che sentivo mi potessero appartenere e di trasmetterli alle mie compagne. Mi sono trovata a essere vice in Serie A in uno spogliatoio con giocatrici anche con più esperienza di me e non è stato semplice perché sono abituata ad ascoltare tanto, a imparare da ciò che vedo e sento. Cercavo punti di riferimenti nelle persone che avevo intorno e dovevo esserlo io: non era semplice. Ora è più semplice perché siamo una squadra molto giovane non ci sono primedonne: siamo tutte sulla stessa lunghezza d’onda. Tutte persone molto aperte al dialogo. Lo dico sempre alle ragazze “Essere il vostro capitano è semplice”».

Quale è il vostro motto?

«In campo io urlo: “Qui ora”; loro mi rispondono: “Testa, cuore, gambe”».

Se lei dovesse augurarsi qualche cosa per il suo futuro, cosa vorrebbe?

«Augurerei a Lucia di riuscire a fare sempre ciò che la rende felice». —

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