Coronavirus, il professor Lopalco: «A casa anche con sintomi lievi, così abbattiamo il contagio del 90%»

Ilaria Bonuccelli
Pier Luigi Lopalco
Pier Luigi Lopalco

Pier Luigi Lopalco, ordinario di Igiene a Pisa, ha fiducia nel contenimento: «Importante anche limitare il numero di contatti che ha ognuno di noi ogni giorno» 

05 marzo 2020
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Restare a casa, alle prime linee di febbre. Evitare raduni, incontri affollati. Con «piccoli sacrifici personali» si contiene il contagio. E contenendo il contagio si eviterà anche di mettere in crisi il sistema sanitario. Regionale e nazionale. Il professor Pier Luigi Lopalco, ordinario di Igiene all’università di Pisa, non è sorpreso della diffusione (esponenziale) dell’infezione da coronavirus. Perché - ribadisce - è e resta una malattia ad alta contagiosità, ma non è grave, se non in casi rari e per persone con condizioni di salute già complicate. Tuttavia - spiega il professore - contenere il contagio - è un obbligo. Per evitare di mettere in crisi il sistema sanitario che è «in grado di reggere la situazione», a patto di non venire travolto da centinaia di casi che necessitano di ricoveri in contemporanea.

Professor Lopalco, perché stiamo assistendo anche in Toscana a un picco di infezioni? Ieri, ad esempio, 19 casi di contagio in un solo giorno. Martedì erano stati 8.

«Sicuramente quello al quale stiamo assistendo in questi giorni è lo sviluppo abbastanza naturale di un’epidemia che si sta cercando di contenere ma che, per ovvi motivi, tenderà a svilupparsi su tutto il territorio nazionale. Dico per ovvi motivi perché dall’esperienza cinese abbiamo visto che i cinesi sono riusciti a contenere l’epidemia (la prima ondata dell’epidemia) ma con costi sociali impensabili nei Paesi occidentali. Quindi il modello cinese non possiamo replicarlo in Italia. Infatti, in Italia abbiamo scelto un modello più accettabile da un punto di vista sociale. Ma questo modello non può ovviamente farci illudere di avere gli stessi risultati ottenuti in Cina: avremo chiaramente, se ci riusciamo, un rallentamento della diffusione del virus».

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Solo un rallentamento della diffusione?

«Un rallentamento. Del resto questo virus, così come era arrivato e circolato nel Nord Est senza dare molti segni della sua presenza, si è diffuso nelle altre regioni con le stesse modalità: probabilmente persone, ignare, sono state nelle zone in cui il virus già circolava, si sono spostate nel resto d’Italia, hanno portato il contagio. Quindi, quello che abbiamo osservato nel Nord Est, lo troveremo nel resto d’Italia, come se fosse un film, spostato avanti di qualche settimana».

Che cosa possiamo fare per rallentare il contagio?

«Noi ci dobbiamo preoccupare di avere focolai di intensità inferiore a quello che si è sviluppano nel Lodigiano. Per far sì che i focolai che si svilupperanno nel resto d’Italia - perché si svilupperanno sicuramente - abbiano un’intensità inferiore rispetto a quello che si è sviluppato a del Lodigiano purtroppo è necessario qualche sacrificio. E si tratta di sacrifici individuali.

L’unico modo per rallentare la diffusione del virus è seguire alcune norme importanti. A parte i 10 “comandamenti” del ministero – come lavarsi le mani, etc – la norma prima primissima da seguire è se non stiamo bene, anche abbiamo un po’ di raffreddore, se ci sentiamo spezzati, se abbiamo un po’ di febbricola non dobbiamo uscire di casa. Rinunciamo a un giorno di lavoro, rinunciamo a un giorno di scuola. Rinunciamo a qualche cosa, ma a qualcosa dobbiamo rinunciare. Dobbiamo cercare di tenere a casa tutti i casi sintomatici. Perché uno di questi casi sintomatici potrebbe non essere influenza: potrebbe essere coronavirus.

Chiunque abbia sintomi simil-influenzali di qualunque entità deve stare a casa. Se tutti rispettassero questo semplice comandamento abbatteremmo del 90% la percentuale dei contagi, perché il 90% dei contagi avviene quando il paziente è sintomatico».

Quali sono i sintomi che ci devono indurre a stare a casa?

«Ripeto, sono quelli di una condizione simil influenzale: febbre, tosse, rinite (raffreddore), congestione nasale, congiuntivite. Sono quelli di una persona che potrebbe avere un brutto raffreddore. Ma soprattutto bisogna fare attenzione alla comparsa della febbre. Alla prima linea di febbre bisogna starsene a casa, starsene buoni e vedere che cosa sta succedendo. Se tutti seguissero questa semplice precauzione, già abbatteremmo il 90% dei contagi».

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Ma non è l’unica misura di prevenzione.

«No. A questa bisogna aggiungere delle misure di “distanziamento sociale”. Bisogna cercare di limitare il numero di contatti che ognuno di noi ha ogni giorno. Anche qui si tratta di sostenere piccoli sacrifici. Ad esempio: in questo periodo evitiamo i grossi assembramenti, le grandi feste, le grandi tavolate. Non dico che dobbiamo diventare asociali, ma limitare gli incontri a piccoli numeri: un conto è incontrarsi con tre amici; un conto è incontrarsi con 30 amici. In questo momento 30 amici insieme non vanno bene: 3 alla volta sì. Questa è un’altra semplice regola che non ci porta sacrifici insostenibili. Si tratta di due regole da rispettare per uno o due mesi, in attesa di vedere come evolve la situazione.

Queste due regole già da sole con un piccolo cambiamento nelle proprie abitudini (e un piccolo sacrificio) permetterebbero di limitare molto la diffusione del virus e rallentare la corsa del contagio. Quello che dobbiamo fare è rallentare la corsa del contagio».

Ma il nostro sistema sanitario è in grado di sostenere la crescita esponenziale dei casi?

«È in grado di fare fronte se non arriva un’ondata tipo Lodi. Dobbiamo evitare che alle porte dei nostri ospedali avvenga quello che è successo all’ospedale di Lodi, all’ospedale di Cremona. Dobbiamo evitare quelle ondate di casi. Se i casi arrivano e arrivano diluiti nel tempo, le nostre strutture sanitarie sono pronte. Ci sono i letti, ci sono i posti eventualmente in terapia intensiva, ci sono i medici, ci sono gli infermieri. Se invece arrivano 50 casi in una notte le nostre strutture sanitarie potrebbero aver problemi. Dal canto loro le autorità sanitarie si stanno attrezzando con i piani di emergenza. Ma noi speriamo di non arrivare ai piani di emergenza: ad esempio identificare un ospedale, identificare uno spazio (dove concentrare i contagiati), mettere le tende che abbiamo anche già visto. Noi speriamo in Toscana di non arrivare a fare questo tipo di intervento, ma di rallentare e diluire nel tempo i casi che inevitabilmente ci saranno»,

Dobbiamo parlate di un focolaio di coronavirus in Toscana, visti i casi in aumento?

«No, ma il virus c’è, come in altre regioni. Ma c’è una diffusione silenziosa del virus».

Si può parlare di un’epidemia?

«Questa è un’epidemia, di modesta intensità, silenziosa, in atto in tutta Italia: ormai non esistono zone indenni».

La diffusione del virus si accompagna a un aggravamento della malattia? Insomma, più diffusa più grave?

«Gli esiti della malattia dipendono dai livelli di assistenza che noi riceviamo. È chiaro che per una persona che ha altre patologie, che ha un fisico debole non c’è assistenza che tenga. I casi incurabili esistono ma sono pochi. Questa è una malattia incurabile in pochissimi casi. Nella stragrande maggioranza, i pazienti anche quando vanno in ospedale, anche quando hanno la polmonite se c’è assistenza giusta, guariscono e tornano come nuovi. Con la diffusione, insomma, la malattia non aumenta di gravità». 

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