Aveva lo sguardo aperto sul mondo
Antonio Tabucchi è morto a 68 anni in Portogallo, ma aveva conservato forti radici toscane
Era la fine degli anni Ottanta. Antonio Tabucchi aveva già pubblicato “Notturno Indiano” e quando mi presentai per parlargli, scandendo nome e cognome, lui mi guardò fisso da dietro i suoi occhiali dalla forma ellittica e mi disse: «Ah, l'autista di Proust». Lì per lì non capii. Ma il trucco era semplice. Il mio cognome era quello del personaggio di un suo racconto in “Piccoli equivoci senza importanza”. Questo era il fatto. Tuttavia, con Tabucchi non erano i fatti a importare. C'era qualcosa oltre ai fatti di più serio e importante. Mi ci sono voluti chilometri e chilometri di righe di libri, pomeriggi e nottate di lettura, e pagine su pagine di quaderni bianchi da riempire prima di arrivare a capire. L'arte inventa la realtà e la letteratura riscrive e ordina il mondo: questa era la fede laica di Tabucchi. Questo lui ha cercato di dirigere sempre all'attenzione dei lettori.
Tabucchi era pisano di Vecchiano, con quell'incedere del parlato già infarinato di bassa Versilia. E nella casa dei nonni, in via dei Magagna, conservava una libreria smisurata, dove capii per la prima volta cosa significa essere uno scrittore conosciuto in tutto il mondo. Tra gli innumerevoli volumi c'erano alcuni suoi titoli tradotti in tante lingue della Terra tra cui giapponese, russo e portoghese naturalmente. Sì, perché Tabucchi era un pisano diventato portoghese, affamato di letteratura e di conoscenza. E per certi versi è proprio da Lisbona, dalla "scoperta" di Fernando Pessoa, che Tabucchi diventa uno scrittore affermato. Ma prima di arrivare al suo successo internazionale, quel “Sostiene Pereira” di cui tutti hanno parlato, Tabucchi era passato attraverso altri libri. All'inizio degli anni Novanta parlammo di alcuni luoghi di Pisa e alla fine il discorso cadde su Piazza Dante dove vivevo. Tabucchi ne tracciò un ricordo temporalmente più vecchio, raccontandomi i luoghi della sua gioventù di studente alla facoltà di Lettere. E quasi un anno dopo, quella stessa appassionata e nostalgica descrizione la lessi nel suo libro “L'angelo nero” dove Tabucchi inseriva certi aspetti gotici e borgesiani dentro le pieghe della città della torre pendente.
In seguito Tabucchi si era trasferito a Firenze, insegnava a Siena e faceva avanti e indietro con Lisbona e il magico Alentejo che tanto apprezzava, dicendo che era bello e ancora un po' selvaggio, come la Maremma toscana. Diventato famoso non tralasciò un impegno che i migliori scrittori del nostro Novecento avevano mantenuto, quello di aiutare scrittori di talento a uscire dalle loro scrivanie casalinghe. Fu così che portò a Feltrinelli Maurizio Maggiani e Ugo Riccarelli. Spesso erano le cene all'Oliveta, in una specie di circolo esclusivo di amici, scrittori o aspiranti tali, che Tabucchi esercitava il suo magistero di conversatore gentile, ironico e passionale. Ma era anche attento e geloso del suo nome di scrittore, come mi accorsi quando nel 1992 stavo curando un'antologia di scrittori italiani contemporanei. Volevo tanto che, insieme a Scarpa, Veronesi, Van Straten, Palandri, Fortunato e altri, Tabucc. hi facesse parte di quel libro, ma c'erano problemi con un altro scrittore italiano famoso quanto lui in Italia e alla fine non se ne fece di nulla.
Poi arrivò un momento duro e crudele: le elezioni che portavano dritti verso la cosiddetta Seconda Repubblica. In un primo momento il giudizio su Berlusconi e su tutti i dittatori Tabucchi lo sublimò in “Sostiene Pereira” che vide un gruppo di incaricati impegnati nell'organizzazione della prima mondiale del film di Roberto Faenza, tratto dal libro. Fu un'avventura magnifica. Fu un evento di grande rilievo per Pisa, e l'ultima apparizione pubblica di Marcello Mastroianni già malato, in una commozione generale e sentita al Teatro Verdi che ospitava l'evento. Tabucchi era molto orgoglioso di quella serata e nei giorni della preparazione teneva il bandolo della matassa, disponendo una regia sorvegliatissima in modo che nulla fosse lasciato al caso.
In seguito Tabucchi cercò altri luoghi oltre la piccola città sull'Arno. Insegnava a Siena, viveva a Lisbona, poi si traferì a Parigi. Dedicò la sua attenzione al popolo Rom, scrisse un altro romanzo di forte impegno umano e sociale, intriso di giallo e mistero (lui che disdegnava la moda dei giallisti), “La testa perduta di Damasceno Montero” e altri titoli successivi ancora più famosi.
Lo scorso anno venne a Firenze a presentare il suo "Viaggi e altri viaggi". Erano anni che non lo vedevo di persona. Mi parai davanti a lui, prima che cominciasse l'incontro, e con aria seria gli dissi: «I migliori omaggi dall'autista di Proust». Mi guardò da dietro i suoi occhiali dalla forma ellittica e si mise a ridere. Parlammo di alcuni episodi pisani. Fu affettuoso e gentile. Lo abbracciai forte. Sapevo che non sarebbe tornato presto. In quel momento era Parigi la città che accudiva i suoi pensieri. Sì, perché l'Europa era la sua casa. Aveva forti radici, ma lo sguardo aperto al mondo. E mentre si stava facendo sempre più tardi, a Stoccolma non hanno capito che avrebbero dovuto consegnare quel Nobel proprio a lui: Antonio Tabucchi, da Vecchiano.
Fernando Pessoa, il maestro di vita che Tabucchi ha mostrato al mondo in tutta la sua grandezza, scriveva: "La morte è la curva della strada. Morire è solo non essere visti". Ma quaggiù saranno tanti a guardare oltre quella curva. Ti verremo a trovare ancora, caro Tabucchi, ci puoi contare.