Il Tirreno

Prato

Due morti asfissiati

Prato, rogo mortale: la proprietaria chiede un risarcimento beffa

di Pietro Barghigiani
Prato, rogo mortale: la proprietaria chiede un risarcimento beffa

Voleva i danni per la casa trasformata in fabbrica: il giudice dice di no e la condanna a pagare l'assicurazione

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PRATO. Una casa trasformata in fabbrica abusiva in cui morirono due cinesi di 37 e 39 anni, asfissiati in un incendio divampato nella mansarda a causa di un impianto elettrico fuori norma. Le due comproprietarie, mamma e figlia, sapevano cosa succedeva in un’antologia di irregolarità in quell’immobile di Vaiano, in località La Tignamica.

Era il 26 agosto 2017 quando la tragedia illuminò, al di là dello strazio per i due morti, anche un sistema: affittare sulla carta un’abitazione e poi incassare al nero il sovrappiù per chiudere entrambi gli occhi su quello che gli inquilini facevano dentro quelle mura destinate a ospitare un laboratorio tessile. Sullo sfondo della vicenda, lontano dai clamori della cronaca, la madre della donna che nel gennaio 2018 patteggiò due anni e sei mesi per omicidio colposo plurimo e incendio colposo (tre anni e due mesi per la coppia titolare del contratto di affitto, ndr) aveva chiesto all’assicurazione di pagarle i danni provocati dall’incendio. Una stima di circa 200mila euro a fronte di una polizza che avrebbe coperto un importo di 300mila.

Dopo il no dell’assicurazione è arrivato anche il rifiuto del Tribunale di Prato (giudice onorario Francesca Vanni). Non solo la donna sapeva che la casa era diventata una fabbrica e per questo prendeva soldi al nero. Ma nel corso del procedimento penale aveva anche ammesso che, per tutelarsi sul rischio di eventuali controlli, ogni mese mandava una diffida agli inquilini, vietando le lavorazioni tessili, che veniva strappata il mese successivo e poi rinnovata. Non solo. Con il broker assicurativo aveva stipulato una polizza per la copertura dei rischi di incendio per un’abitazione, non per una fabbrica fantasma per la legge, ma operativa e venuta alla luce con il suo carico di dolore solo per il rogo mortale.

I vigili del fuoco hanno appurato, si legge nella sentenza, «che l'appartamento veniva impropriamente utilizzato come laboratorio per la lavorazione di manufatti tessili come dimostra la presenza al piano primo di una taglierina, di tre macchine cucitrici e, al piano secondo, dalle carcasse di 16 macchine cucitrici, un ferro da stiro con caldaia e numerosi ventilatori».

Dai sopralluoghi dei vigili del fuoco risulta inoltre che al piano primo vi fossero 12 posti letto (uno persino nel ripostiglio) e tre al piano mansardato (dove si è sviluppato l'incendio e hanno trovato la morte due persone)». Fabbrica-dormitorio nel solco delle tradizioni manifatturiere cinesi nel Pratese.

La comproprietaria ai magistrati aveva ammesso di aver accettato che l'immobile fosse adibito a laboratorio e dormitorio: «Nei primi mesi del 2014 i cinesi mi chiesero di poter lavorare all'interno dell'abitazione. Iniziò quindi una trattativa che si concluse sostanzialmente con la mia disponibilità a concedere ai cinesi l'utilizzo dell'abitazione anche come luogo per lo svolgimento delle lavorazioni. Fu stipulato un contratto a nome della madre che succedeva al contratto del figlio. Oltre a quanto la madre mi corrispondeva secondo il contratto, ossia mille euro, per accettare la richiesta che mi veniva dai cinesi di lavorare nell'abitazione mi venne garantito l'ulteriore somma mensile di 400 euro».

Tra stratagemmi per aggirare la legge e reticenza verso la compagnia sulla natura del bene da assicurare, la proprietaria svelò all’epoca un accorgimento messo in atto per coprirsi le spalle in caso di verifiche.

«Dal 2015 chiesi ai cinesi di firmare in occasione del pagamento del canone mensile un foglio con il quale formalmente li diffidavo ad interrompere le lavorazioni – fu la sua deposizione nel corso del procedimento penale – Quei fogli li preparavo stampandoli e consegnandoli alla madre in occasione del pagamento degli affitti. Il mese successivo veniva strappata la diffida del mese precedente e firmata quella nuova. Con quel foglio ammetto di aver tentato di precostituirmi una tutela nel caso di controlli da parte dell'autorità di polizia. È stato un comportamento che oggi non esito a definire demenziale perché ho completamente sottovalutato il rischio che questa situazione di lavoro svolto all'interno dell'abitazione avrebbe potuto determinare così come poi di fatto è accaduto».

Dopo il patteggiamento della figlia, la donna aveva chiesto all’assicurazione di pagarle 200mila euro di danni per il rogo. Richiesta respinta e nella causa l’unica condannata è stata lei: deve versare 20mila alla compagnia. l

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