Delitti del mostro, non si cerca più la famigerata Beretta
A sparare nella serie degli otto duplici omicidi potrebbe essere stata un'altra pistola. Il punto sull'inchiesta che vede indagato l'ex legionario pratese Vigilanti e il medico Caccamo. L'avvocato dei familiari delle ultime due vittime chiede l'avocazione del fascicolo: "Archiviazione o rinvio a giudizio, basta che si sbrighino"
PRATO. Non è più così sicuro che a uccidere le sedici vittime attribuite al “mostro di Firenze” sia stata la famigerata Beretta calibro 22 cercata per oltre quarant’anni e mai trovata. Potrebbe essere stata un’altra pistola, oppure due pistole, o la stessa pistola a cui sia stata sostituita la canna. È questa la novità più rilevante nella nuova inchiesta sul mostro (otto duplici delitti commessi in provincia di Firenze dal 1968 al 1985). O meglio, sono queste le ipotesi faticosamente elaborate dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale di Firenze, che scavano nel passato per conto del sostituto procuratore Luca Turco.
Un’inchiesta venuta alla luce nel luglio dell’anno scorso e che vede indagati l’ex legionario pratese Giampiero Vigilanti, 88 anni, e il medico fiorentino Francesco Caccamo, di un anno più giovane, ma che procede molto lentamente, almeno secondo l’avvocato Vieri Adriani, legale dei familiari delle ultime due vittime (Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, uccisi a San Casciano il 7 settembre 1985). Tanto che giovedì 29 marzo l’avvocato ha depositato un’istanza in cui chiede alla Procura generale presso la Corte d’appello l’avocazione del fascicolo, cioè di toglierlo al pm Turco. "Almeno ci dicano che cosa stanno facendo - si lamenta Adriani (da un suo esposto è partito il nuovo filone di indagini) - Facciano una richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Anche nell’interesse degli indagati...".
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Il mistero della pistola. Ma torniamo alla pistola. O meglio, alle pistole. Fin dall’inizio delle indagini sui delitti del mostro si è parlato di una Beretta calibro 22, quella che avrebbe iniziato a sparare il 21 agosto 1968 a Signa (uccidendo Antonio Lo Bianco e Barbara Locci) e avrebbe smesso solo 17 anni dopo a San Casciano. Ora si è fatta strada un’ipotesi alternativa, e cioè che a sparare possa essere stato un altro modello di arma, sempre calibro 22 ma di altra fabbricazione. E qui entra in gioco Giampiero Vigilanti, ex militare della Legione straniera, conoscente del mostro per eccellenza Pietro Pacciani (morto però da uomo libero dopo l’annullamento dell’ultima condanna) e possessore, almeno fino al 2013 di una pistola americana High Standard calibro 22. Ce l’aveva anche nel 1985, regolarmente detenuta, quando l’allora brigadiere dei carabinieri di Prato Antonio Amore andò a trovarlo nella sua casa di via Anile e la perquisì, partendo dalla convinzione che Vigilanti potesse aver avuto un ruolo in alcuni dei duplici omicidi. Un’intuizione che però cadde nel vuoto. Il brigadiere inviò una segnalazione a Firenze, ma nessun accertamento balistico fu compiuto, forse proprio perché all’epoca si cercava una Beretta. Eppure insieme alla pistola il brigadiere trovò decine di articoli di giornale sui delitti del mostro, nella casa di Prato e in quella del Mugello dove viveva la madre dell’ex legionario. I carabinieri tornarono a casa di Vigilanti nel 1994 dopo una banale lite con un vicino. La pistola non c’era più, ma c’erano 176 proiettili Winchester calibro 22 serie H, lo stesso lotto usato dal mostro. Però Vigilanti quella pistola l’ha tenuta in casa fino al 2013, quando ne denunciò il furto insieme ad altre tre armi, in coincidenza coi primi accertamenti della nuova inchiesta. "Finché non dirà dove sono quelle quattro pistole gli staranno addosso..." disse la moglie di Vigilanti a fine luglio.
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L'ogiva e il coltello sparito. Gli stanno addosso perché i segni trovati su un’ogiva (la parte anteriore del proiettile) raccolta sulla scena dell’ultimo delitto del mostro non coincidono con quelli trovati su altre ogive. E perché quel tipo di segni può lasciarli anche un’altra calibro 22 a canna lunga, per esempio una High Standard. I carabinieri hanno acquisito le foto pubblicate dal Tirreno nelle quali Vigilanti mostra orgoglioso la sua pistola nel 1998, quando raccontò di aver ereditato 18 milioni di euro da un cugino americano (un’eredità fasulla, si scoprirà più avanti). Solo che quella pistola, per l’appunto, non c’è più e non potrà essere sottoposta a un esame balistico. C’è anche un’altra foto a cui gli inquirenti sono interessati, segnalata nel suo esposto dall’avvocato Vieri Adriani. La foto mostra un cassetto aperto da cui emerge la sagoma di un grosso coltello, un coltello che Vigilanti ha sempre detto di non aver posseduto. La foto non si trova, e nemmeno il coltello, anche se è improbabile che possa avere a che fare coi delitti del mostro, per i quali si è sempre parlato di qualcosa di più simile a un bisturi (quello col quale l’assassino si è portato via macabri feticci).
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I contatti col medico. La High Standard sparita è anche uno dei punti di contatto tra Vigilanti e l’altro indagato, il medico Francesco Caccamo, perché quella pistola, risulta agli atti delle indagini, ce l’aveva prima il dottore, poi fu resa al poligono di Prato, usata per qualche tempo da una terza persona estranea alle indagini e infine arrivò nelle mani di Vigilanti. Si tratta di un racconto orale, perché i documenti dell’arma sono andati persi nell’incendio del poligono, il 4 luglio 2006. In realtà è stato lo stesso Vigilanti a tirare in ballo Caccamo nelle sue prime chiacchierate da persona informata sui fatti col procuratore Paolo Canessa, che poi lascerà il fascicolo al collega Turco. Dice che si conoscono fin da quando entrambi abitavano nel Mugello; dice che andò a vedere il luogo dell’omicidio di Vicchio (29 luglio 1984, vittime Claudio Stefanacci e Pia Rontini) e di essersi fermato poi a casa del medico, dalle cui finestre si vede il posto; non parla molto bene del suo amico dottore, lascia intendere che abbia qualcosa da nascondere. Ma gli inquirenti non gli credono, hanno ascoltato Caccamo alla fine di luglio 2017, negli stessi giorni in cui è stato interrogato Vigilanti, e sembrano propensi a escludere un suo coinvolgimento nei fatti di sangue. A proposito di frequentazioni sospette col senno di poi, Vigilanti non nega di aver conosciuto Pietro Pacciani, anzi racconta di averlo preso a bastonate negli anni Cinquanta, quando era ancora un ragazzo, prima di scappare in Francia e arruolarsi nella Legione straniera. Dice di averlo fatto perché Pacciani aveva rubato il lavoro a suo padre.
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La Lancia Flavia. Nella cucina di Giampiero Vigilanti, in via dell’Anile, ci sono un paio di foto che lo mostrano accanto a una Lancia Flavia rossa e nera. Quella macchina lui non ce l’ha più ma deve esserle rimasto molto affezionato e così la esibisce. Si dà il caso che un’auto simile è stata descritta da almeno un testimone come quella usata per la fuga dal killer di Claudio Stefanacci e Pia Rontini. Lo stesso Vigilanti, sfidando la sorte, sembra abbia detto di essere passato quel giorno in quella zona, per puro caso. I carabinieri del Ros hanno accertato che quella Lancia esiste ancora e si trova nel Nord Italia. Ora è di un altro colore. Uno meno sicuro di sé, col peso di un’accusa di questo tipo, avrebbe evitato di ostentare quelle foto. E invece...
Le tracce biologiche. Ma la vera insidia da cui Vigilanti dovrà guardarsi non è legata a una pistola che nessuno troverà mai, a un’auto che forse somiglia a quella del mostro o forse no o a uno dei vaghi indizi di cui è costellata questa storia. Il vero pericolo si chiama Dna. Negli anni Ottanta le tecniche per l’attribuzione di tracce biologiche a un determinato soggetto erano solo agli albori e nessun accertamento serio in questo senso è stato compiuto. Passati trent’anni le tecniche si sono affinate e i reperti dell’epoca sono stati conservati. Partendo da quelli, cioè dalle tracce biologiche trovate sulle scene del crimine e non appartenenti alle vittime o sulle lettere anonime inviate agli inquirenti, per esempio, la Procura di Firenze potrebbe riuscire ad arrivare dove non è arrivata la Squadra anti-mostro, la famosa Sam che fu istituita per condividere tutte le informazioni e non disperderle nei tanti rivoli di un’inchiesta in cui è facile perdersi.
I soldi non ci sono. Se in un’indagine come questa contasse il vecchio motto “segui il denaro”, l’indagine sarebbe già finita, perché di soldi in questa storia ce ne sono pochi o punti. Negli anni caldi dell’inchiesta sul mostro si ipotizzò che l’esecutore o gli esecutori materiali agissero per conto di ricchi feticisti disposti a pagare per i “trofei” presi alle vittime, ma se davvero era così, di questi soldi non c’è traccia nella vita di Giampiero Vigilanti. L’eredità del cugino americano, come detto, si è rivelata fasulla e chi conosce l’ex legionario dice che non naviga nell’oro. Dunque ora si tratta solo di aspettare una nuova puntata, o la fine, di questa inchiesta che sembra non voler mai tramontare.