Ergastolo a Vignozzi

Ergastolo a Vignozzi

La corte di assise decide dopo una camera di consiglio di due ore

20 luglio 2017
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MASSA. Un omicidio volontario, premeditato con futili e abietti motivi. La corte di assise, presieduta dal giudice Giovanni Sgambati, ha letto la sentenza di condanna all’ergastolo per Roberto Vignozzi - l’ex portalettere di 74 anni accusato dell’omicidio del maresciallo dei carabinieri Antonio Taibi - alle 16.34, dopo due ore di camera di consiglio. Ma si era capito che la riunione sarebbe stata rapida da come la giuria si è ritirata, ammonendo le parti a non allontanarsi troppo. La decisione era nell’aria dopo che lunedì l’imputato aveva tentato l’ultima disperata difesa dicendo che gli era partito un colpo accidentalmente mentre estraeva la rivoltella dalla tasca del giubbotto per mostrarla al sottufficiale, nel disperato tentativo di fargli firmare una fantomatica ammissione di responsabilità, su una carta intestata dell’Arma, per l’arresto del figlio Riccardo avvenuto dieci anni prima per lo spaccio di cinquecento pasticche di stupefacente. La corte non ha ritenuto necessario l’isolamento diurno, ma ha interdetto il pensionato dai pubblici uffici e previsto una provvisionale di centomila euro ciascuno per la vedova e i figli del militare premiato con la medaglia al valor civile. Altri soldi, ma somme simboliche, per i ministeri dell’Interno e della Difesa e per l’associazione vittime del dovere. In sede civile verranno stabiliti gli importi.

Il processo in tutto è durato otto mesi. È stato un dibattimento difficile e le parti non hanno risparmiato colpi di scena. Dalla richiesta rigettata di ricusazione del secondo giudice togato della corte, Alessandro Trinci, perché aveva giudicato i figli dell’ex portalettere, Riccardo e Alessandro, in un altro procedimento. Condannandoli entrambi (Alessandro però in appello poi è stato assolto), il giorno prima della morte di Taibi. E l’accusa ha puntato proprio su questo per dare un movente all’omicidio. Portando le prove che hanno fatto condannare il pensionato all’ergastolo. Sono stati sentiti un centinaio di testimoni, chi ha visto Vignozzi in quel caseggiato di via Monterosso quella mattina e chi ha raccolto la sua confessione quando si è consegnato spontaneamente a un impiegato del tribunale che gli firmava i permessi quando doveva andare in carcere a fare visita al figlio Riccardo. Ma è stato sentito anche il brigadiere Luigino Caria, che l’imputato ha accusato insieme a Taibi di aver incastrato il suo ragazzo chiedendogli di aiutarli ad ammanettare alcuni spacciatori. Una storia che non ha trovato conferme in aula, ma che è diventata movente. Perché l’ergastolo di Roberto Vignozzi è partito da qui, come ha detto lo stesso settantenne: «Sono sceso all’inferno insieme a mio figlio e non ho potuto neppure godermi una vincita al Totocalcio che ci avrebbe permesso di vivere bene». Invece quei soldi sono andati in avvocati. Un odio feroce che, nonostante la lettera con cui ha chiesto perdono alla vedova e ai figli della vittima, e alcune intercettazioni in cui ammette di aver fatto una cosa abominevole, gli ha fatto dire in aula mentre veniva interrogato dal pubblico ministero e dalle parti civili che i carabinieri erano dei miserabili e dei giuda. Poteva essere un’attenuante per cancellare quel fine pena mai. Invece sono rimaste solo le aggravanti, come l’acquisto della pistola automatica Heckler e Kock in coincidenza con la condanna di Riccardo. E come quel porto d’armi fatto rinnovare nove giorni prima dell’omicidio e che non gli è servito mai a nulla perché, come ha ammesso lui stesso, non ha mai sparato un colpo al poligono. Il grilletto di quella rivoltella è stato premuto soltanto la mattina del 27 gennaio del 2016 e la prima delle 12 cartucce che si trovavano nel caricatore si è conficcata nel cuore del sottufficiale, che nell’androne del condominio stava parlando con un signore che nemmeno si ricordava. Un porto d’armi che ha impedito al suo legale di giocarsi la carta della perizia psichiatrica, nell’ultimo istante del dibattimento. Vignozzi per la corte di assise è sano di mente e per questo deve stare in carcere fino alla fine dei suoi giorni.

Danilo D’Anna

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