Il Tirreno

l'intervista

Mario, l'artista che ha scoperto il marmo grazie ad un missionario

Melania Carnevali
Lo scultore ecuadoregno Mario Tapia
Lo scultore ecuadoregno Mario Tapia

Viveva nel bosco, in Ecuador, e creava statuine col legno... poi scoprì Carrara e fu amore tormentato

25 gennaio 2015
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CARRARA. Mario Tapia, scultore ecuadoregno di 48 anni, non è solo un artista sui generis, stando alle critiche del circuito artistico locale. È anche un uomo piacevolmente diverso dai canoni tipicamente occidentali.
Sorride continuamente, ha una parola buona per tutti, infonde ottimismo. Ascoltiamo la sua storia affascinati, viaggiando attraverso i suoi occhi scuri verso l'Ecuador di oltre vent'anni fa, quando viveva ancora nel bosco.
Senza elettricità né acqua calda. Andava a caccia. Aveva vent'anni e non aveva mai visto una città. Poi, l'incontro con un missionario piemontese, padre Giovanni Onore, che gli ha cambiato la vita.

Mario, è stato lui a scoprire che era uno scultore?
«Già... Devo molto a quell'uomo, perché mi ha dato la libertà: mi ha fatto scoprire di amare la scultura. Io infatti creavo statuette con il legno; lavoravo anche tutta la notte senza rendermene conto. Fu lui che un giorno, notando le mie statuette, mi disse: “Se lavori il legno verranno le tarme, devi lavorare il marmo”. E così prima mi iscrisse alla scuola dei francescani a Quito, poi a una scuola d'arte e poi ancora all'Accademia di Belle Arti di Carrara. Mi pagò l'iscrizione e il biglietto dell'aereo e arrivai qua. Era il 1992. Mi disse “hai anche il biglietto di ritorno, se superi il test di ammissione sai cosa ti aspetta qua, se non passi il test hai il biglietto per tornare in Ecuador”. E mi lasciò davanti all'Hotel Dora, nel centro storico».

E come si è sentito?
«Come lanciato sulla Luna. Non avevo un amico, non conoscevo l'italiano. Poi in quel periodo era tutto chiuso perché era metà agosto. Per due mesi ho mangiato due gelati al giorno, perché non avevo molti soldi. Poi sono andato a lavorare nei laboratori a lucidare sculture e a restaurare mobili antichi».

Ai quei tempi era più facile trovare lavoro?
«Sì, si viveva molto meglio all'epoca. Grazie al mio lavoro sono riuscito a mandare i miei fratelli a scuola in Ecuador. Adesso non si riesce nemmeno a pagare le bollette».

Colpa della crisi?
«Anche, le sculture d'altronde sono beni di lusso. Si vende meno mentre le tasse aumentano. È diventata invivibile l'Italia. Ma è anche il mercato che è cambiato. Da una parte infatti ci sono i robot, che stanno uccidendo il lavoro artigianale. Li accendi e lavorano notte e giorno. Poi c'è la competizione della Cina. Loro riescono a comprare il marmo, a portarlo là, farlo lavorare a manodopera sottopagata o ai robot stessi e a riportare qui la statua finita per venderla a un terzo del prezzo di un artigiano locale».

Quindi la Cina si è presa tutta la filiera: dalla lavorazione alla vendita?
«Purtroppo sì. Ed è un peccato. Non bisognerebbe trascurare i lavoratori, perché sono una ricchezza grande. Anche con i robot sparisce la tecnica, la tradizione. Mi sono accorto infatti che sono scomparsi gli artisti figurativi; per farli infatti bisogna conoscere l'anatomia. Ma adesso ci sono i robot che da una fotografia creano l'85% dell'opera, poi l'artigiano rifinisce l'ultimo 15%. Tanta è grande la competizione che noi artisti non riusciamo più a fare niente di personale. Siamo costretti a terminare quel 15% lasciato dai robot, dietro ai quali a volte c'è un artista e a volte nemmeno quello o a creare ex novo sculture per artisti che hanno soldi».

Sembra quasi la descrizione del lavoro in fabbrica...
«Ed è così che ci sentiamo. Si lavora dodici ore al giorno per gli altri e, oltretutto, si riesce a malapena ad avere i soldi per pagare le bollette. Ma la cosa in assoluto più triste è che questo sistema non lascerà opere d'arte al futuro. Prima o poi questo patrimonio nazionale morirà».

Però lei è molto conosciuto e apprezzato, sia a Carrara sia nel suo Paese. Come ci è riuscito, partendo dal nulla?
«Ho iniziato con i Simposio, convinto che la cosa più importante per uno scultore fosse il nome, il personaggio. Poi ho avuto anche un po' di fortuna. Grazie ai miei contatti con la Chiesa ho creato la Santa Mariana de Jesus di sei metri, che è esposta in Vaticano. Questo mi ha aperto le porte in Ecuador. Essendo la santa del mio Paese, per due anni, il tempo che ho impiegato a fare la scultura, sono venuti numerosi giornalisti a intervistarmi che hanno parlato di me in Ecuador. Una mia scultura, la “Adolescenza”, è stata anche stampata sui dei francobolli».

Quindi è una celebrità nel suo Paese?
«Ero. E' facile creare un nome e arrivare all'apice. È difficile mantenerlo. Bisognerebbe stare sempre attivi, continuare a fare opere, cose che appunto non riesco più a fare. E questo è uno dei motivi per cui vorrei andarmene via».

Sta pensando di andarsene?
«Dovevo rimanere quattro anni... Vede, penso che Carrara sia un enorme cratere, con un bellissimo sasso in fondo, dove dormono i tuoi sogni. Ti trovi davanti al sasso e scolpisci e scolpisci, senza renderti conto di quello che ti succede intorno e poi ti svegli e son passati ventidue anni».

Che bella immagine che ha evocato! Dà a intendere una passione profonda per questo lavoro. O meglio per il marmo...
«Sono innamorato. Potrei lavorare dodici o quindici ore senza rendermene conto. Beh (sorride, ndr), adesso magari me ne rendo conto, perché a forza di stare in piedi incomincio ad avere le vertebre schiacciate, ma quando lavoro non sento fatica. Carrara ti attira, sei felice con il marmo e se guadagni o non guadagni non ti interessa. Poi però ti rendi conto che non vale più la pena faticare così tanto per nulla, quando la tua famiglia è oltreoceano».

Cosa potrebbe fare?
«Verrei a prendere il marmo qui e lo lavorerei là».

C'è mercato?
«Sì, ci sono molti benestanti. L'Ecuador è uno dei Paesi dell'America Latina in crescita, grazie anche all'ultimo presidente. Sta diminuendo la corruzione, aumentano i finanziamenti ai giovani e all'istruzione. La città sta crescendo. Insomma c'è un futuro. E come sogno, poi, ho quello di creare una scuola del marmo là. Vorrei trasmettere la mia conoscenza ai giovani. E una volta formato qualcuno, gliela lascerei in mano e ne aprirei un'altra. E così via».

Ma quindi tornerebbe a vivere nel bosco?
«No, no. Non ci riuscirei più. Non è facile tornare indietro».

A Carrara ha sculture esposte?
«No nulla, a Carrara non ho mai fatto niente».

Come mai?
«Ho provato due volte a partecipare al Simposio e non mi hanno preso. Poi volevo donare al Comune un pellicano in marmo bianco gigante da mettere a Marina di Carrara. L'idea era di posizionarlo nella piazza in modo che i bambini lo usassero come cavallino. Mi risposero che dovevo essere molto conosciuto e non lo hanno voluto. Ora quel pellicano è all'Isola d'Elba. Ma qui mi sono trovato benissimo. Mi hanno accolto e dato tutto ciò di cui avevo bisogno. E poi ho incontrato la mia seconda famiglia: gli Scarfò. Appena arrivato andai a lavorare agli Studi Nicoli, dove lavora ancora uno di quella famiglia che mi invitò a mangiare a casa loro. Dopo l'accademia mi sono trasferito da loro. Mi ricordo che un giorno mi prestarono una bicicletta e io, entusiasta, andai fino a Colonnata. Al ritorno vidi un sasso gigante di marmo e lo caricai. A uno certo punto, mentre tornavo in città, ho sentito “pam”: era scoppiato il cerchione della bicicletta».
 

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