È la mamma livornese del Kenya: Susanna e la casa famiglia per i bimbi
Volontaria e manager: da 14 anni porta avanti la missione “Sawa Sawa”: «Abito in mezzo alla natura, qui la gente sa che abbiamo sempre la porta aperta»
LIVORNO. La sua Africa. Quella di Mama Jamila, così la chiamano da quando è nata sua figlia. Quella che da 14 anni porta avanti in Kenya, vicino al lago Naivasha, a Kikopey. Qui c’è la sua “Sawa house”. Una casa famiglia, ma non solo. «Seppur la base sono i bambini e le madri, negli anni abbiamo aiutato in vari settori diversi sostegni alle cure mediche, talvolta legali per madri minacciate e naturalmente fino al 2024 come casa accoglienza per bambini e talvolta madri», racconta Susanna Ureni, mentre nella sua “Sawa house” è indaffaratissima. Nata a Rosignano, già dal 1982 vive a Livorno: oggi ha 57 anni, il volontariato nel suo dna e l’energia di un vulcano, parla swahili e naturalmente inglese. «In swahili per esempio sawa sawa vuol dire ok, karibu benvenuto e mtoto bambino», è un fiume di aneddoti. Ureni è laureata in Scienze per la Pace, per lei esperienze di volontariato da Rosignano a Livorno e in giro per il mondo prima di decidere per il Kenya. Quindi lascia l’Italia per l’Africa, con la Terrazza Mascagni nel cuore, i ricordi sui banchi di ragioneria al Vespucci, le “vasche” in piazza Attias. Poi la voglia di viaggiare. «Il primo grande viaggio fu in Australia poi proseguii facendo volontariato con gli oranghi in Malesia e altri viaggi Brasile, Cuba, Nicaragua e altri Paesi». Fino al Kenya.
Nel 2014 nasce Sawa Sawa. Come è arrivata a questo progetto?
«Sawa Sawa legalmente è nata nel 2014, ma la mia attività è iniziata in Kenya dal 2007. Nel 2011, una volta trasferita, l’attività si è estesa. Sawa Sawa è nata dalla mia attività di volontariato. Fin da subito nel tempo libero mi sono dedicata a quello in cui ho sempre creduto, aiutare chi è meno fortunato di me. Nei primi anni facevo piccole iniziative, poi dal 2012 mi sono trovata coinvolta nella gestione di un orfanotrofio locale che versava in condizioni disperate e mi sono focalizzata su bambini e madri».
Oggi quanto siete cresciuti?
«Oggi Sawa Sawa dopo 14 anni di attività è un’organizzazione riconosciuta localmente, soprattutto dalla comunità di Kikopey. La gente sa che da noi trova sempre una porta aperta e se abbiamo i fondi anche un aiuto concreto. La nuova legge del 2022 dava 10 anni per convertire quelle strutture che non intendevano prendere la licenza per orfanotrofi come noi, a livello locale la legge e stata male interpretata e lo scorso anno ci siamo visti arrivare una lettera di chiusura. È stato un trauma. Non volendo diventare un orfanotrofio in quanto il nostro approccio era più di casa famiglia, non contemplata dalla nuova legge, abbiamo deciso di spostare tutti i bambini residenti nelle scuole a tempo pieno e da questo 2025 dormono e mangiano lì, e iniziano un progetto di riavvicinamento con i parenti più o meno vicini. Questo ci ha portati a fare uno sforzo finanziario imprevisto che ci ha lasciati senza risorse».
Momenti belli e brutti?
«Quando pensavo di mollare tutto c’erano soprattutto motivi legati alla famiglia. I momenti più belli? Sicuramente i primi anni in Kenya: era tutto una scoperta. Ogni weekend decidevo una nuova meta, tra savana e animali selvatici: giraffe, zebre, bufali, ippopotami. Avevo l’abitudine, dopo il lavoro, di andare a bere una birra sul lago aspettando gli ippopotami».
Si sente un po’ la mamma di tanti bambini kenyoti?
«Se lo sento o no, di fatto lo sono. Per molti di loro rappresento l’unica persona presente da anni, che non si tira mai indietro».
Come è la “sua Africa”?
«Nei primi anni avevo molto da imparare sulla savana e i suoi animali. Un giorno mi trovai dopo una curva un bufalo davanti all‘auto. Lui si fermò e pure io. Ci guardavamo immobili. Siamo andati avanti così molto tempo io non sapevo cosa fare. “Vai” dicevo in auto e poi avevo paura che mi attaccasse. Alla fine, lui prosegui ma credo ci siamo guardati per almeno mezz’ora. Più tardi mi spiegarono che in quel caso avrei dovuto fare retromarcia almeno un po’, giusto per farlo sentire vittorioso e proseguire nel suo cammino».
Che vita fa in Kenya?
«Impegnatissima tra lavoro e volontariato praticamente non ho mai tempo. Adoro dove abito in mezzo alla natura e agli animali. Adoro passeggiare all’alba tra i campi bufali permettendo».
Conserva qualche abitudine labronica?
«Io sono una frana a cucinare, mi manca la cucina italiana e livornese tanto che il vicino ristorante italiano praticamente lo mantengo io. L’abitudine labronica che non può essere eliminata ovunque tu sia nel mondo e il “boia dé”».
Quanta Livorno c’è in questa sua missione, nel senso di aiuti?
«Praticamente tutto, eccetto poche nicchie nel nord Italia, i livornesi sono stati e rimangono la struttura portante di tutta la nostra attività. L’ex presidente e fondatore di Sawa Sawa Italia, Alessio Santacroce, sta portando avanti un’attività eccellente e direi fondamentale. Poi Iko con Mikol Zanni, Stefania D’Echabur e molti altri. A Livorno molti locali hanno avuto iniziative per sensibilizzare e raccogliere fondi: Quo Vadis, Jhonny Paranza, Chalet della Rotonda, Megik cult, Percorsi musicali e tanti altri».
Chi vuole può unirsi?
«Certo i volontari sono i benvenuti. Lo scorso anno abbiamo avuto due italiane (purtroppo non livornesi) e 3 spagnole. A differenza delle grandi organizzazioni, ogni euro donato a Sawa Sawa non si disperde in burocrazia: arriva direttamente ai bambini, alle mamme, alle famiglie della comunità di Kikopey. Con soli 5 euro si può già sostenere Sawa Sawa Italia OdV e contribuire ai nostri progetti. Le donazioni possono essere fatte tramite conto corrente, PayPal o sul portale Wishraiser. Chi desidera vivere un’esperienza diretta di volontariato venga qua».