Livorno, la drammatica testimonianza: «Vent’anni fa la mia morte bianca ma la sicurezza non è migliorata»
Stefano Di Bartolomeo: «Battevo lo stoccafisso al mercato, il macchinario non aveva sistemi di protezione mi ritrovai col braccio destro completamente risucchiato nei rulli fino al mento»
LIVORNO «Sono trascorsi 20 anni da quella maledetta giornata di lavoro, doveva essere una giornata come tante altre, invece giovedì 4 agosto 2005 ha cambiato e stravolto la mia vita e quella della mia famiglia», è il racconto il prima persona di Stefano Di Bartolomeo, presidente territoriale Anmil Livorno. A 20 anni di distanza ricorda la sua tragedia. In prima persona.
«Mentre ero impegnato nella battitura dello stoccafisso, con un macchinario senza nessun sistema di sicurezza, nessuna protezione, ad un tratto mi ritrovai con il braccio destro completamente risucchiato fino al mento, incastrato nei rulli.
Mi trovavo nel laboratorio nei sotterranei del mercato centrale, con la porta socchiusa, impossibilitato a muovermi e a fermare la pressa, provai a chiedere aiuto con tutto il fiato che avevo, ma niente, provai ancora e ancora, ecco che sentii una voce: era quella del mio collega Jonny, sceso per andare a prendere della merce, si trovò davanti una scena difficile da dimenticare e urlando mi chiese: “Stefano! Sei vivo? Cos’è successo?!”.
La mia risposta fù: “Jonny, ferma la macchina e vai chiama qualcuno, corri e chiedi aiuto”. Lui per fare prima staccò la corrente dall’interruttore generale fermando così i rulli.
Dopo qualche minuto la cella frigo si riempì di persone: c’erano alcuni tra i ragazzi dei banchi e altri esercenti, e i vigili urbani del mercato.
Da lì a poco arrivò la Misericordia e la dottoressa fece allontanare tutti, arrivarono anche i Vigili del Fuoco, da me soprannominati in seguito i miei “Angeli del Fuoco”, ricordo ancora lo sguardo preoccupato della dottoressa rivolto al capo squadra dei Vigili del Fuoco, perché il tempo trascorreva e non riuscivano a liberarmi.
L’intervento
Un intervento reso difficile a causa dell’ambiente stretto, con poca luce, trascorsero 90 minuti prima di riuscire a liberare il braccio dai rulli, così da trasportarmi con la massima urgenza al pronto soccorso.
Arrivati, ci fu una prima valutazione del danno alla spalla e al braccio destro, che avevano subito uno schiacciamento, con diverse fratture. Dopo le prime cure i medici, parlando con mia moglie Mascia le dissero queste parole: “La situazione di suo marito è molto grave, dobbiamo capire bene l’entità del danno e se sarà possibile salvare il braccio”. Lei gli chiese con un filo di voce: “Ma è in pericolo di vita?”. “Al momento non lo sappiamo”, fu la loro risposta.
Una semplice giornata di lavoro, si stava trasformando nello sconforto più totale, la paura e il dolore si stava impossessando di noi, è una sensazione che a distanza di tanti anni ricordo ancora, i medici decisero di attendere qualche giorno prima dell’operazione, avendo coinvolto un chirurgo plastico per un consulto che sarebbe dovuto venire da Pisa per partecipare all’intervento.
L’operazione durò molte ore, i medici riuscirono a salvare il braccio, anche se non erano certi del recupero totale del braccio visto le diverse fratture alle ossa della spalla, i danni neurologici e al sistema linfatico della spalla e del braccio destro.
La situazione clinica dopo qualche giorno dall’intervento subì un peggioramento, obbligando i medici a spostarmi in diversi reparti per cure più approfondite (Ortopedia -Medicina d’urgenza e malattie infettive a causa di una grossa infezione che stava interessando la spalla e il braccio, per difficoltà respiratoria causata da alcune schegge ossee, che avevano perforato la pleura) e la febbre alta.
Dopo 40/45 giorni di ospedale, il quadro clinico andò migliorando, permettendomi il rientro a casa, consapevole però che avrei dovuto affrontare un lunghissimo periodo di riabilitazione, che iniziai quasi subito, prima all’ospedale di Livorno in seguito presso il Centro Riabilitativo Inail di Volterra, da dicembre del 2006 a marzo del 2007, e poi anche nei centri di Cisanello e Santa Chiara a Pisa, oltre a visite specialistiche, negli anni a seguire presso l’Ospedale Rizzoli di Bologna e uno specialista a Milano.
Il licenziamento
Trascorsi quasi 2 anni, visto che la situazione di recupero della funzione del braccio si era stabilizzata, con un recupero parziale del 40% l’Inail decise di chiudere la temporanea (il periodo di apertura dell’infortunio) dicendomi che in seguito sarei stato chiamato a visita collegiale per la valutazione postumi dell’infortunio, nel frattempo sarei dovuto rientrare a lavoro. Immaginate voi il mio stupore, come potevo riprendere un lavoro che richiede l’uso di tutte e due le braccia per lo scarico della merce, per servire i clienti e per il lavoro al banco? Questo dipendeva dalla valutazione della commissione medica della medicina del lavoro della Usl, a cui fui sottoposto su richiesta del mio datore di lavoro. Dopo avermi visitato e chiesto che tipo di mansione svolgevo sul lavoro, la relazione finale della Commissione fu l’idoneità ad un lavoro che richiedeva un utilizzo del braccio destro ridotto, senza sforzi o movimenti ripetitivi.
Visto la mia non idoneità alla mansione svolta prima, e l’impossibilità di destinarmi ad altri incarichi, il mio datore di lavoro mi licenziò per giusta causa.
Mi crollò il mondo addosso, iniziò un lungo periodo di depressione con attacchi di panico, fui costretto a ricorrere alle cure di uno specialista, oltre a cercare di mantenere stabile con terapie riabilitative il braccio, dovevo superare anche questa. Trovai la forza nella mia famiglia, in particolare in mia moglie Mascia: devo a lei il mio essere qui oggi, non solo perché è stata sempre al mio fianco, sia durante il ricovero in ospedale, mi accompagnava alle terapie, che soprattutto durante il mio ricovero a Volterra, mi confortava nei momenti più difficili e mi spronava a reagire.
Inoltre dovemmo affrontare il lunghissimo percorso processuale sia per la causa penale (tre gradi di giudizio) che il processo civile, ci sono voluti quasi sette anni per arrivare alla conclusione di tutto ottenendo giustizia. Spesso le udienze venivano rimandate e ogni volta era dolore ricordare momenti drammatici per tutta la mia famiglia.
La battaglia
Nel 2007 è nato il nostro secondo figlio Nicolò, Sandy (nostra figlia) ne aveva 15 quando ho subito l’infortunio, non lavorando ho potuto dedicare a Nicolò più tempo, sentendomi così utile e parte più attiva alla vita familiare, mentre continuavo a fare i cicli di terapia, cercavo di partecipare a corsi di formazione per un nuovo futuro lavoro.
Nello stesso anno conobbi l’Associazione Nazionale fra lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro (Anmil) con la quale iniziai subito una collaborazione, con vari progetti, tirocini e iniziative, così da poter aiutare chi come me aveva subito un infortunio sul lavoro.
Ho fatto diversi colloqui per eventuale assunzione come categoria protetta, (disabile) ho partecipato anche ad un concorso a Roma, ma la risposta era sempre la stessa: “Le faremo sapere”, sembrava che fosse solo un obbligo di legge per molte aziende, spesso mi sentivo demoralizzato, come se stessi chiedendo l’elemosina e non un mio diritto costituzionale.
Per mantenere la mia mente impegnata e sollevare così il morale passavo più tempo in Anmil cercando di rendermi sempre disponibile ad nuovi progetti o incarichi, partecipai ad uno speciale di Raidue sugli infortuni sul lavoro “Morire per un Giorno di Lavoro” di Donato Placido 25 Marzo 2007, fui contattato da una giornalista scrittrice Samanta Di Persio che mi chiese se ero disponibile a raccontare la mia storia, sarebbe poi stata pubblicata insieme ad altre in “Morti Bianche” diario dal mondo del lavoro: morti infortuni e malattie come cambia la vita di chi ne rimane coinvolto” (2008).
Cercavo, con la mia testimonianza, di essere d’aiuto nel trasmettere il messaggio che la Cultura alla salute e Sicurezza sui luoghi di lavoro deve avere la priorità, che può essere raggiunta solo con un lavoro di squadra nel massimo rispetto dei ruoli di Enti preposti al controllo, di Enti pubblici, dei datori di lavoro dei lavoratori stessi, delle rappresentanze sindacali, datoriali e di categoria, del testo Unico per la Salute e Sicurezza sui luoghi di Lavoro, D.Lgs 81/2008 perno fondamentale.
Nel 2010 riuscii anche se per un breve periodo a rientrare nel mondo del lavoro con una cooperativa sociale.
Oggi ricopro l’incarico di Presidente territoriale e di Consigliere regionale per il terzo mandato, purtroppo non molto è cambiato dal 2005, sempre troppi lavoratori e lavoratrici perdono la vita sul lavoro o subiscono infortuni gravi. Sempre troppe lacune vengono fuori, sempre troppe aziende preferiscono risparmiare in sicurezza per aumentare così il profitto, sulla pelle dei lavoratori e delle loro famiglie. Il mio prossimo obiettivo prima del termine del mio mandato è quello di un murales dedicato alla sicurezza, coinvolgendo non solo il comune di Livorno ed altri enti ma anche gli istituti scolastici superiori, le associazioni datoriali e di categoria, le rappresentanze sindacali. Vorrei terminare questo mio racconto con un appello a tutti affinché si possa garantire a chi la mattina esce da casa per andare a lavorare di tornare dai propri cari sano e salvo, perché la tutela dell’integrità fisica è un dovere di tutti e un diritto costituzionale. l
presidente territoriale Anmil Livorno