Il medico toscano che salva le vite nell’inferno di Gaza: «Mi sono licenziato per venire sotto le bombe»
Il racconto del chirurgo: «Devi essere pronto a tutto, per me non ci sono distinzioni tra i feriti: ho soccorso anche terroristi dell’Isis»
LIVORNO. Nel triage del chirurgo di guerra c’è anche il bollino nero. Che viene assegnato a chi è spacciato, perché provare a salvarlo sarebbe troppo complicato e dispendioso in termini di tempo (da togliere alle cure degli altri) e materiali. L’unico aiuto che può ricevere è fatto di morfina e antidolorifici. No, non c’è niente di cinico in tutto questo. Anzi, certe drammatiche scelte sono figlie di un cuore grande, pieno di umanità. «Perché, quando ti arrivano 15 persone ferite sotto le bombe, puoi concedere un minuto a ciascuno di loro, per osservarli mentre sono uno sopra all’altro per terra, in un lago di sangue. Capire chi ha più chance di vivere. E poi dedicarti a loro con tutto te stesso, in mezzo a mille difficoltà». Giuseppe Soriani, 59 anni, livornese – figlio di Pier Giovanni, storico primario di Chirurgia dell’ospedale di viale Alfieri – è un chirurgo di guerra di “Medici senza Frontiere”, in prima linea da 25 anni in tutto il mondo: da Gaza all’Iraq, dal Sudan al Congo fino allo Sri Lanka.
Come ha iniziato?
«Era il 1999. Un mio collega andava sulle Ande in Perù, per prestare servizio in un villaggio a 3.500 metri di altitudine. Presi ferie, mi pagai il biglietto e lo seguii. Fu un’esperienza magnifica. Lì c’era bisogno di tutto, compreso far nascere i bambini. Mi adeguai. Subito dopo contattai Medici Senza Frontiere e nel 2000 mi mandarono in Sri Lanka, dove c’era la guerra civile. Arrivavano di continuo feriti da arma da fuoco. Devi essere pronto a tutto».
Quando ha deciso di dedicare la sua vita alle missioni?
«Ho lavorato negli ospedali di Piombino, Livorno e Cecina e nel frattempo sfruttavo le ferie per continuare ad andare nelle zone di guerra con le organizzazioni umanitarie. Fino al 2016, quando ho deciso di licenziarmi per dedicarmi completamente a fare il chirurgo di guerra».
Compresa Gaza…
«Sono andato per quattro settimane tra dicembre e gennaio scorsi. Lo scenario è diverso rispetto ad altre zone dove sono in corso conflitti e dove i feriti sono soprattutto da arma da fuoco o arma bianca. A Gaza il 70% di coloro che arrivano in ospedale sono civili, in prevalenza bambini con le conseguenze dei bombardamenti: schegge (soprattutto di vetri in frantumi), ustioni per l’onda di calore e lesioni da crollo. E farci l’abitudine è impossibile».
Lunedì scorso l’esercito israeliano ha attaccato l’ospedale Al–Aqsa a Deir al-Balah, dove ha lavorato anche lei. Le bombe hanno causato un incendio che ha colpito l’accampamento dove vivevano gli sfollati, causando quattro morti e decine di feriti…
«Noi siamo venuti via a gennaio, quando gli israeliani hanno fatto sapere che nel giro di qualche mese avrebbero attaccato l’area. È stata un’evacuazione controllata, diciamo. Ho ancora negli occhi gli sguardi pieni di tristezza di pazienti e familiari che ci vedevano fare le valigie».
Dove abitava quando era in missione nella Striscia?
«In ospedale. Dormivo in una delle sale operatorie. Un’altra cosa che mi è rimasta impressa nella testa di quell’esperienza è il rumore costante dei droni di controllo che sorvolano l’ospedale giorno e notte. Un ronzio senza sosta».
E le bombe?
«Uno scoppio ogni 20 secondi in media. Anche vicino all’ospedale. Dove si lavorava in condizioni indescrivibili, con persone ammassate ovunque: nei bagni, nei corridoi, sulle scale, addirittura negli ascensori inutilizzati. I posti letto erano 250 ma avevamo costantemente 700 pazienti, oltre ai familiari. Un caos totale nel quale devi mantenere la lucidità necessaria per valutare i feriti, prendere le decisioni giuste e curarli con i materiali e i medicinali che hai a disposizione. Tutto questo riposandoti pochissimo. Ho imparato a fare di tutto. Per fare un esempio, mi sono ritrovato a costruire stampelle con pezzi di legno, perché non ne avevamo».
Dove trova ogni volta la forza di partire?
«Dopo Gaza quest’anno sono stato cinque mesi in Congo (per la quinta volta), dove è in corso da dodici anni la guerra civile. E ora ho dato la mia disponibilità a Medici senza Frontiere per una nuova missione: la destinazione viene scelta dall’Organizzazione in base alle necessità. La fatica è tantissima, ma l’entusiasmo mi dà la forza per continuare in questo percorso. Dal 1999 ho fatto 33 missioni (alcune pagandomi le spese di tasca), 22 delle quali in zone di guerra. Sono stato in Iraq, per esempio, dove ho effettuato interventi chirurgici in un tir trasformato in sala operatoria; e poi in Sudan, in Libia, in Siria. Ma anche ad Haiti, dove c’è la guerra civile e ogni giorno in media ti vedi arrivare 15-20 feriti da arma da fuoco».
Ha mai pensato di mollare?
«No. Il mio è un amore senza fine per questa professione. È una cosa che ho sempre avuto dentro. Ricordo che da neolaureato scrissi a Medici senza Frontiere, per mettermi a disposizione. Loro mi risposero, in sostanza, “fatti le ossa per qualche anno, poi ne riparliamo”. Dopo ho capito perché: spesso sei solo ad affrontare certe situazioni e devi essere in grado di gestirle. Ci vogliono esperienza e formazione continua. Ma vengo ripagato dalla possibilità di aiutare chi è in guerra. E per me non c’è alcuna distinzione tra i feriti: quando ero in Libia mi è capitato di curare dei prigionieri accusati di essere terroristi dell’Isis. Io sto dalla parte dei feriti, senza distinzione di razzo o religione».
Una curiosità. Nel suo curriculum c’è anche un anno da medico degli esploratori al Polo Sud…
«Era la terza spedizione invernale italo-francese alla Stazione Concordia, nel cuore dell’Antartide. Nel 2007 vidi l’annuncio su una rivista e decisi di provarci. Poi scoprii di essere l’unico candidato… È stata un’avventura stupenda insieme ad altre 13 persone, compresi meteorologi, glaciologi, astronomi ecc. Eravamo isolati dal mondo, in condizioni estreme: la temperatura minima registrata in quel periodo fu di -82°…».
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