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Il ricordo

Anniversario del Moby Prince, i familiari chiedono una nuova commissione: «L’ultimo passo per la verità»

di Andrea Rocchi
Anniversario del Moby Prince, i familiari chiedono una nuova commissione: «L’ultimo passo per la verità»

Livorno, corteo coi parenti delle vittime 32 anni dopo. Chessa: «Aprite gli armadi della vergogna»

11 aprile 2023
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LIVORNO. C’è una domanda, che più delle altre, ci logora oggi che celebriamo il 32esimo anniversario del Moby. Ci ronza in testa mentre procediamo in silenzio verso l’Andana degli Anelli nella prima cerimonia senza Angelo Chessa, che se n’è andato nel giugno scorso, la terza senza Loris Rispoli, che non ha smesso di lottare dal suo letto di casa. Verrà mai il giorno – ci chiediamo – in cui tutto ciò finirà, in cui questo corteo carico di rabbia e di sconforto non sarà più un rituale costellato di punti interrogativi ma una cerimonia nel solo segno del ricordo e della testimonianza? Perché vorrà dire che quello sarà il giorno in cui Verità e Giustizia non saranno più nomi nudi su uno striscione blu, ma un diritto acquisito, negato da troppo tempo. Vorrà dire che il muro di falsità, omissioni, reticenza e depistaggi che ha contrassegnato questa Ustica del mare, sarà finalmente sbriciolato. Perché ha ragione Loris quando sostiene che quella del Moby Prince non è una “questione privata”, da relegare solo al dolore di pochi, ma una vicenda che appartiene a una città intera, anzi a un Paese che se vuole definirsi civile deve spiegare cosa è successo quel tragico 10 aprile del 1991 quando un traghetto è bruciato dopo essersi schiantato contro una petroliera. Deve accertare chi sono i responsabili, deve cercare i colpevoli.
 

Nascondino con la verità
Quello sarà il giorno in cui lo Stato smetterà di giocare a nascondino con la verità sulla pelle di chi ha perso una persona cara. Quello Stato che da una parte – attraverso due processi chiusi senza dare risposte e uno, amministrativo, che ha sbattuto la porta in faccia ai familiari delle vittime negando loro ogni possibilità di risarcimento (almeno quello materiale) – ha miseramente fallito. Ma anche quello Stato che, col lavoro certosino di due commissioni d’inchiesta, ha contribuito a squarciare il velo di opacità su quella notte, alimentando nuove possibilità in quell’altalena di dolore e speranze che ci ha accompagnato.
 

I lenzuoli bianchi
Oggi che sono passati 32 anni chiede giustizia, con rinnovata forza, Nicola Rosetti che ha ereditato proprio da Loris la presidenza dell’associazione 140. E’ in prima fila, nel corteo che dal municipio procede verso il porto, con Luchino Chessa, l’altro figlio del comandante del Moby che ha visto finalmente riabilitata la figura del padre comandante. C’è il sindaco Luca Salvetti, col presidente della Regione Eugenio Giani, il vice presidente della Provincia Pietro Caruso, il senatore Manfredi Potenti. Ci sono i sindaci dei comuni livornesi, i portavoce delle istituzioni civili e militari, l’associazione 140 e 10 Aprile, i rappresentanti delle famiglie distrutte in un’altra strage, stavolta sui binari della ferrovia, la strage di Viareggio.
I familiari delle vittime del Moby parlano tra loro, negli occhi luccicano speranza, dolore e rassegnazione. Tengono in mano la foto di un lenzuolo bianco su cui campeggia il nome e il cognome e il numero di protocollo della vittima: 140 lenzuoli come quelli esposti nell’hangar Karen B, quando i parenti delle vittime si dovettero sottoporre allo straziante rito del riconoscimenti di quel che restava dei cadaveri. Ci sono anche bambini, i nipotini della tragedia, che quella storia paurosa se la sono sentita raccontare da babbo e mamma o dai nonni. E che pure sono la speranza, la fiammella che tiene accesa la forza del ricordo e della memoria.

«Una terza commissione»
Poco prima del corteo, in sala consiliare, si sono susseguiti gli interventi delle istituzioni e, soprattutto, dei rappresentanti dei familiari. Rosetti, con un groppo in gola, ha detto: «Noi dobbiamo avere un unico obiettivo, arrivare finalmente a scrivere la parola fine a questa storia. Non possiamo perdere più tempo. Loro sono stati bravi a nascondere la verità e a giocare sulle nostre divisioni. Ma il lavoro che hanno fatto Loris e Angelo dimostra che uniti possiamo farcela». Luchino Chessa ha preso la parola subito dopo, ringraziando perché finalmente oggi si “sente la vicinanza delle istituzioni”. «Noi oggi dobbiamo guardare avanti - ha detto – non per noi per i nostri cari, ma per tutti i cittadini italiani perché nessuno debba più trovarsi a combattere per avere la verità. Spinti da un moto di resilienza, che ha contagiato tanti amici, dobbiamo passare dalle parole ai fatti. Non ci accontentiamo di sapere che molte cose che sono state dette erano false, che molti accertamenti pur doverosi non sono stati fatti, che ci sono voluti oltre 30 anni per svelare carte e documenti. La verità oggi è chiusa in armadi della vergogna che è l’ora che vengano aperti. Ci sono due inchieste in vita di cui non conosciamo nulla ma che confidiamo ci portino alla verità». Chessa ha lanciato un nuovo appello ai parlamentari affinché si concluda quel lavoro della seconda commissione. E Giacomo Sini, che nella strage ha perso il padre, ha chiesto che anche l’armatore venga chiamato in causa dai parlamentari per le condizioni in cui navigava il traghetto.
 

Indagini e nave fantasma
Restano, 32 anni dopo, le domande. Specialmente in questo 32esimo anniversario che ha visto la seconda commissione d’inchiesta, presieduta dall’onorevole Andrea Romano, arrivare ad una nuova verità. Una verità che in tanti hanno sempre ipotizzato e che pure aveva già fatto capolino in sede di istruttoria del primo processo, nel resoconto del professor Giovanni Mignogna, perito di alcune parti civili e che, praticamente in solitudine, aveva parlato di una collisione causata dalla presenza di terzo natante sulla rotta del Moby. Scenario che la commissione d’inchiesta ha dato oggi per assodato. Mettendo un altro tassello nella costruzione di un puzzle nuovo che smonta, uno dopo l’altro, quei pezzetti di “verita” che hanno camuffato la ricostruzione della tragedia: la presenza della nebbia, che non c’era. Gli errori del comandante Chessa, che non ci sono mai stati.
Chi era questa nave fantasma? Il peschereccio della Shifco, flotta donata dall’Italia alla Somalia negli anni della cooperazione su cui metterà gli occhi nel 1994 Ilaria Alpi nell’indagine su un traffico di armi e rifiuti che avrebbe coinvolto il nostro Paese e che le costerà la vita nell’attentato a Mogadiscio? Era la 21 Oktobaar II, che quella notte, taglio la rotta al Moby obbligando Chessa a una virata d’emergenza che portò il traghetto a schiantarsi contro la petroliera? Oppure – altro scenario ipotizzato – era una bettolina dedita ad attività clandestina di bunkeraggio? In sostanza un traffico illecito di nafta o petrolio? O ancora una nave militarizzata (il 10 aprile 1991 in rada a Livorno sarà accertata la presenza di sette navi Usa) impegnata in operazioni di carico e scarico di armi?
Quella notte, dopo la collisione, scapparono tutti. Ma la fuga non si è limitata a quella tragica notte. In tanti sono scappati negli anni a venire. Oggi resta un’inchiesta aperta alla Procura di Livorno con un’accusa pesantissima: strage. Ed è l’unica che non si prescrive. Come la memoria.

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