Quando a Livorno si “tagliavano” le teste e il boia veniva addirittura da Pisa
Documenti del ’700 sulla pena capitale, il patibolo era nella “piazza dei Sughi”. Il racconto di Ottone delle Guide Labroniche: la gogna era dove c’è via Mentana
LIVORNO. Parlare del boia dei livornesi, fa sì che la mente corra subito al tradizionale rafforzativo da aggiungere al “dè” per configurare meraviglia o ammirazione. Ma quello di cui ci parla Fabrizio Ottone dell’Associazione Guide Labroniche, era un uomo in carne ed ossa che da Firenze, alla bisogna, raggiungeva la nostra città per assolvere al suo triste compito: il pendolare della forca. «Da documenti acquisiti datati 1712 - racconta Ottone – il signore in questione veniva chiamato Mastro Meo e “lavorava” normalmente a Firenze. Siccome molte città della regione erano prive di questa figura in pianta organica, lui era costretto a spostarsi su è giù per la Toscana».
E se la prospettiva di penzolare giù dalla forca era di per sé poco entusiasmante, a questo si aggiungeva per un livornese la beffa di vedersi impiccare da un boia – scrivono i documenti – originario di Vico Pisano... Ma la pena di morte in Toscana non era stata abolita ? «In realtà – spiega Ottone- la sospensione della pena capitale resistette solo quattro anni, dal 1786 al 1790, e poi tornare in auge quasi esclusivamente per il reato di omicidio». Il patibolo – racconta la guida -, era collocato in uno spiazzo tra le attuali via Mentana, via Chiellini, via Sproni e Via de Larderel corrispondente, più o meno, all’attuale piazza Pamela Ognissanti».
Mastro Meo era un professionista in tutti i sensi. Meticoloso nella preparazione dell’esecuzione, si avvaleva dell’aiuto di alcuni operatori locali assunti, potremmo dire, “a gettone”. Le salme dei defunti venivano poi seppellite nel Cimitero dei Turchi, a due passi dal patibolo, equiparando, nella tumulazione, assassini e “infedeli”. Durante i lavori per la realizzazione della piazza, negli anni ottanta, furono ritrovate ossa. «A proposito di piazza - ci interroga Ottone -, sa che nei dintorni del luogo in questione c’era la “Piazza dei Sughi” ?». La spiegazione risiede tutta nel cinico umorismo dei livornesi. «Se il criminale in questione aveva compiuto un omicidio particolarmente efferato – prosegue la guida -non solo veniva ucciso ma il corpo veniva inoltre squartato. Il sangue restava in copiose pozze sul luogo e la piazza divenne così denominata “dei sughi”».
Ma non c’erano solo le esecuzioni capitali. «La frusta, la staffilata e la berlina, ovvero il pubblico dileggio della persona per la colpa commessa, incastrando l’interessato nell’apposito capestro – narra Ottone –. La gogna poteva essere pure itinerante. In groppa a un ciuco, in giro per la città con un cartello ben visibile che ricordava quale fosse la colpa commessa».
Tornando ai condannati alla pena capitale, Ottone racconta di due tipi sfuggiti miracolosamente alla morte. «Il boia sapeva come l’equo Granduca decretasse sì la morte degli assassini, ma che detta morte dovesse essere il meno dolorosa possibile. Quindi, in rapporto alla stazza fisica del condannato, l’esecutore sapeva quanti decimetri di corda utilizzare per far sì che il condannato spirasse per il troncamento dell’osso del collo e non per soffocamento, pratica più dolorosa e maligna. «Nel caso di un condannato particolarmente obeso, Mastro Meo sbagliò misura con il condannato agonizzante senza però dar segni di cedimento finale. Il carnefice era un uomo pratico e pensò bene di colpire con i piedi la testa dell’uomo per velocizzare l’operazione. A questo punto però il popolo reagì alla crudele iniziativa di Meo e cominciò a tempestarlo di pietre. Il boia fu costretto a rifugiarsi nel Duomo per essere salvato dalle guardie dopo aver corso seriamente il rischio che il popolo lo ripagasse con la stessa moneta (il cappio) mentre l’obeso assassino fu soccorso e poi graziato dando per scontato che simili eventi accadevano solo per volontà divina». Stessa fortuna ebbe in sorte un tipo che stava aspettando da due giorni il boia che incomprensibilmente non si presentava (era ammalato) all’appuntamento . «Nel braccio della morte livornese, i condannati erano assistiti dai Fratelli Confortatori della Misericordia, ovvero delle anime pie che cercavano appunto di infondere coraggio agli assassini prima che raggiungessero il capestro. Ogni volta che la porta si apriva, il condannato temeva che fosse arrivato il suo turno. In realtà erano i Fratelli che si davano il cambio non comprendendo nemmeno loro il perché del ritardo (la comunicazione fra uffici della pubblica amministrazione sin da allora registrava problemi ndc). Alla fine Mastro Meo non ne volle sapere di rimettersi, continuando a restare malato e il prigioniero, per le stesse ultraterrene motivazioni, fu pure lui graziato».
I Confortatori nell’assistere il morituro, portavano con sé un crocifisso che è ancora conservato nella navata centrale della Chiesa della Misericordia in via Verdi. In tutti i casi a Livorno il boia non divenne mai, sempre per adoperare termini della Pubblica Amministrazione, “di ruolo”. «No, nonostante che il marchese Carlo Ginori, governatore di Livorno -conclude Ottone - con una lettera al Granduca lo pregasse di nominarne uno “fisso”. Ma il problema lo si risolse all’italiana. Succedeva spesso che i detenuti nella prigione condannati alla forca fossero (informalmente) giustiziati da altri detenuti incaricati del compito. Giusto per arrivare al 1854, data dell’ultima esecuzione». Quando il boia andò in pensione.l