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Moby Prince, la nuova verità sulla tragedia del 1991: al traghetto fu tagliata la rotta

di Andrea Rocchi
Il relitto del Moby in una foto di Massimo Sestini
Il relitto del Moby in una foto di Massimo Sestini

Arrighi con le foto di Sestini racconta cosa accadde quella notte di 32 anni fa. Dai risultati della commissione d’inchiesta riflettori accesi sulla terza nave

09 marzo 2023
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LIVORNO. «Erano le 22,30 ed ero ancora seduta davanti al computer nella redazione della cronaca di Livorno, al primo piano dello storico palazzo di Viale Alfieri 9, sede del Tirreno. Ad un certo punto mi chiamò il centralinista: “Ho al telefono una persona che parla impastando le parole. A me sembra che abbia bevuto. Dice che si trova dalle parti della Baracchina Rossa e che vede un fuoco in mare. Che faccio?”. Rimasi perplessa e il centralinista, mi sembra che quella sera fosse di turno Alessandro Disegni, mi rispose: “Ci penso io”. Ma un secondo dopo, per scrupolo professionale, composi il numero dell’Avvisatore Marittimo: appena chiesi cosa stava accadendo in mare mi risposero di andare alla Terrazza, che forse da lì avrei potuto vedere qualcosa. C’era un’emergenza ma non sapevano ancora cosa stesse succedendo>.

Cosa successe, quella notte del 10 aprile del 1991, lo sappiamo tutti. Oggi Elisabetta Arrighi, giornalista e scrittrice che da quasi 32 anni si occupa della più grande tragedia della marineria italiana, ci consegna quella che _ come recita il titolo del suo ultimo libro _ è “la nuova verità”, l’ennesima in ordine di tempo, che poteva essere già scritta molti anni fa. E che invece è rimasta solo un ipotesi nel cassetto mentre attorno al rogo del Moby Prince si consumavano tesi, suggestioni, depistaggi, scenari apocalittici, versioni di traffici militari e/o di materiale radioattivo, che chiamavano in causa americani, servizi segreti, fino anche alla mafia. Ci è riuscita, in parte, la Commissione d’inchiesta della Camera dei Deputati che ha proseguito tra la primavera del 2021 e il settembre 2022 il lavoro cominciato e sviluppato dalla prima commissione nominata dal Senato e che già aveva messo a nudo una serie di incredibili silenzi ed una tragica catena di errori.

L’ostacolo sulla rotta

Qual è la nuova verità di cui scrive Arrighi nel libro corredato dalle suggestive immagini di uno dei grandi della fotografia come Massimo Sestini? Qualcosa che era vicinissimo già allora, ma che è rimasta un’ipotesi accantonata in un cassetto: c’era un ostacolo fra la prua del traghetto e la nave cisterna Agip Abruzzo, un ostacolo improvviso e imprevisto per cui il Moby quella sera fu costretto a effettuare una manovra per evitarlo. Ma dietro si trovava la petroliera e in pochi attimi tutto si trasformò in fuoco, fumo e morte. Anche se la morte, per molti dei passeggeri, non fu così rapida come si scrisse nelle prime indagini. Ha detto il presidente della commissione d’inchiesta al termine della conclusione del lavoro, chiuso in fretta e furia per la fine della legislatura: “La verità poteva essere scritta subito dopo la strage” e questo se le inchieste giudiziarie dell’epoca non si fossero perse dentro “un fumo di confusione creato dalle varie tesi sulla nebbia e sulla distrazione dell’equipaggio”.

La catena dei misteri

Cosa resta da fare, oggi? Cercare cos’era quell’ostacolo misterioso che ha costretto il comandante a una manovra repentina, improvvisa. Perché la commissione, su questo, disegna solo uno scenario facendo alcune ipotesi: un peschereccio, il 21 Oktobar II della flotta Shifco, costruito in Italia e consegnato alla Somalia nell’ambito della cooperazione. Un nome, quello della Shifco, già finito sui taccuini di Ilaria Alpi, trucidata a Mogadiscio il 20 marzo del 1994 insieme all’operatore Miran Hrovatin mentre indagava su un traffico d’armi. Oppure, invece di un peschereccio, quella che incrociò la rotta del Moby in quella notte maledetta era una nave militare. O piuttosto una bettolina, di cui parlò il comandante dell’Agip Abruzzo Superina nelle comunicazioni via radio subito dopo la collisione. Arrighi, che continua il suo lavoro di ricerca già confluito nel libro del 2016, ripercorre con dovizia di particolari e analizzando fonti documentali e testimoniali quella notte del 10 aprile di 32 anni fa. Ricordando anche come l’ipotesi della terza nave non fosse una completa novità ma risultasse già dallo scenario disegnato nel primo processo dall’ingegner Giovanni Mignogna, consulente di parte civile per conto di alcune famiglie di marittimi e del sindacato di settore Filt Cgil assistiti dall’avvocato Bruno Neri del Foro di Livorno e dal professor Alfredo Galasso. La tesi di Mignogna non fu accolta dai giudici, eppure l’ingegnere alla commissione d’inchiesta dirà: “...non è stato mai trovato l’ostacolo che avrebbe determinato la virata. Personalmente avevo messo gli occhi su un peschereccio, ma su queste cose bisogna procedere in un certo modo. L’ostacolo non è mai stato trovato, ma la manovra è stata fatta volontariamente dal timoniere, di certo su ordine dell’ufficiale di guardia, del comandante: la stessa forzatura per il ritorno è stata fatta dal timoniere prima dell’impatto. Da questo punto di vista non posso dirvi, ma è evidente che c’era qualcosa davanti al traghetto”.

Dalla parte delle vittime

Scrive Arrighi: “Lo Stato, riguardo alla tragedia del Moby Prince e alle sue 140 vittime, ha aspettato quasi un quarto di secolo per non voltarsi più dall’altra parte”. La giornalista ripercorre analiticamente le tappe della vicenda: l’inchiesta e il processo per sabotaggio a bordo del relitto, l’inchiesta bis della Procura di Livorno, il nuovo fascicolo. Si sofferma sulle tante (troppe) contraddizioni: la presenza o meno della nebbia, le navi che si allontanarono rapidamente dalla rada ( il riferimento è alle comunicazioni fra “Theresa” Ship One), le dichiarazioni di Luccio, soprannome di un pescatore, raccolte dal presidente dll’Ala Cb Cignetti che riferì di aver visto il Moby virare rapidamente e delle persone, raccolte poi da un motoscafo d’altura, buttarsi dal traghetto prima della collisione. E poi misteriosi personaggi che rivelano fatti o storie incredibili. Arrighi s i pone dalla parte dei familiari delle vittime (alcuni dei quali intervista) e ci consegna, nel libro, anche pagine dedicate a personaggi più o meno chiave della vicenda: il consulente tecnico Gabriele Bardazza, gli avvocati Bruno Neri e Stefano Taddia legali di parte civile, l’onorevole Andrea Romano presidente dell’ultima commissione d’inchiesta, Lorenzo Checcacci ufficiale di guardia in Capitaneria la sera del 10 aprile 1991, lo stesso Massimo Sestini, i fratelli Chessa figli del comandante Ugo e naturalmente Loris Rispoli, per 30 presidente dell’associazione 140. Il libro si chiude con una appendice dedicata al dolore e al ricordo, esercizi necessari per cercare finalmente quella verità e giustizia che manca da quasi 32 anni. Quel dolore e ricordo di cui le 140 rose rosse all’Andana degli Anelli sono ormai diventata un triste emblema.
 

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