Il Tirreno

Livorno

Barison, Bizzarrini, Lampredi e gli altri, quando nel motore c'era il talento “amaranto”

Mauro Zucchelli
Barison, Bizzarrini, Lampredi e gli altri, quando nel motore c'era il talento “amaranto”

Nell’industria dell’auto una galleria di geniacci labronici con il gusto di escogitare le soluzioni più innovative 

04 settembre 2020
4 MINUTI DI LETTURA





LIVORNO. C’era una volta il marchese Cordero di Montezemolo con l’idea di puntare sul business delle auto. Però di nome faceva Carlo anziché Luca, e eccoci indietro non di una manciata di anni bensì di un secolo tondo tondo: insomma, non siamo a Torino bensì a Livorno. L’officina la potevamo trovare dirimpetto alla statua di Luigi Orlando davanti al cantiere di famiglia: se gli Orlando erano una dynasty garibaldina che arrivava dalla Sicilia via Genova, dentro quest’altro capannone c’era invece un ingegnere – milanese ma forse ancor più “garibaldino” come carattere – che si chiamava Silvio Barison.

La distribuzione a cono rotante è considerata in certo qual modo l’apripista di soluzioni che affascineranno i progettisti dei decenni successivi. Non solo: Barison voleva utilizzare anche l’alluminio in una progettazione industriale fuori dagli schemi. Curiosamente ne ritroveremo traccia nelle promesse (non mantenute) da Gian Maria Rossignolo nella realizzazione della super-car “livornese” da far nascere sulle ceneri dello stabilimento Delphi. Ma le vetture di Barison non erano chiacchiere acchiappa-fondi: dalla fabbrica livornese uscirono davvero una ventina di esemplari che ai saloni automobilistici di quegli anni misero in vetrina una capacità innovativa rispetto agli standard di allora.

Potrebbe partire da qui una storia amarcord dell’industria livornese dell’auto. Raccontano che domenica 13 per la prima volta la Formula 1 arriverà in Toscana col Gran premio al Mugello. In realtà, è proprio a Livorno che i bolidi di Tazio Nuvolari, Achille Varzi e Rudolf Caracciola saranno protagonisti nel ’37 di uno dei pochissimi casi in cui il “Gran premio d’Italia” ha lasciato l’autodromo di Monza: sul “circuito” che sale verso il Castellaccio la Coppa Montenero tenne banco per più di vent’anni, spesso ribattezzata come Coppa Ciano dalla propaganda del regime che puntò molto sulla linea direttissima col Duce per avere nello sport (con il nuovo stadio nel ’35 e con il Giro d’Italia che nell’arrivo a Livorno nel ’37 vide il trionfo, manco a dirlo, del campione labronico Olimpio Bizzi).

Detto per inciso, a dispetto del fatto che Nuvolari abbia vinto di più in questa competizione automobilistica (cinque), prima della guerra il nomignolo di “re di Montenero” se l’era conquistato fra gli appassionati tal Ettore Materassi, classe 1894, ex garzone di bottega e poi autista di bus licenziato perché correva troppo. Per una curiosa coincidenza, era di Borgo San Lorenzo e faceva le linee un po’ sterrate un po’ no fra i vari borghi mugellani dove nascerà l’autodromo toscano. Con una curva che porta il suo nome, così come al Castellaccio c’è la curva che porta quello di Nuvolari.

Non ci sono solo quegli episodi lontani, c’è una tradizione di motorismo “amaranto”: non è davvero un caso se per una buona ventina d’anni, a partire dagli anni ’80, l’industria dell’auto sarà il cuore del sistema manifatturiero del nostro territorio (anche con quasi 3mila addetti).

Dal punto di vista industriale potrebbe valere la pena ricordare cos’era la Spica anni ’70 dal punto di vista degli standard di qualità produttiva delle candele o della capacità innovativa del sistema di iniezione dell’Alfaromeo Montreal. Ma prima ancora occorre tornare con la memoria alle straordinarie figure di due progettisti livornesi che hanno fatto la storia: l’uno è Aurelio Lampredi, l’altro è Giotto Bizzarrini. Entrambi passati dalla corte di Enzo Ferrari: talmente geniali da aver marchiato con il nome Lampredi il bialbero Fiat che resterà in produzione per un terzo di secolo o da esser oggetto di culto per collezionisti di supercar al punto che le quotazioni per una Bizzarrini P538 passano il milione di euro (e esser finito negli atlanti dei bibliofili di questo genere di vetture con una fama inox al limite della venerazione). Il talento di ambedue gli ingegneri livornesi è stato celebrato in una mostra alla Fondazione Geiger prima di lasciare Cecina.

Gli anni di Lampredi e di Bizzarrini sono anche quelli in cui Franco Scaglione firma per l’Alfaromeo la “33 Stradale”, considerata un capolavoro visionario che ha consacrato il genio di questo designer che a fine carriera si trasferisce a vivere in provincia di Livorno prima di morire nel ’93. Nella casa del Biscione di Arese ci sarà posto poi negli anni successivi per un altro livornese: Mario Favilla, che al centro stile è stato responsabile dell'advanced design e per un periodo ha lavorato al fianco di maghi come Walter De Silva.

Chiuse le due grandi fabbriche (Trw e Delphi) che negli anni ’90 avevano preso il posto della Spica, solo un ricordo i rally che quarant’anni fa richiamavano migliaia di appassionati alle prove speciali, niente di niente che a Salviano ricordi l’officina che sfornò 150 gioielli targati Bizzarrini, figuriamoci la fabbrica di Barison: possibile che il genio amaranto di tutta questa tradizione di motori si sia persa nel nulla?


 

Primo piano
Il ritratto

Addio Franchino: gli anni da parrucchiere, “la grande botta”, i successi e la malattia

di Mario Moscadelli