Il rabbino amico di tutti che ricostruì la sinagoga
di Mauro Zucchelli
Bruno Polacco al fianco dei due Toaff per l’inaugurazione del nuovo tempio Qui fiorì la cultura ebraica: grandi nomi e magnifici oggetti nelle aste internazionali
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LIVORNO. In una storia come questa c’è un moulinex di elementi simbolici, e dunque le date sono un tassello essenziale del puzzle. A cominciare dal fatto che oggi è passato mezzo secolo esatto esatto dalla scomparsa del rabbino Bruno Polacco, e siamo a pochi mesi dal centenario della sua nascita. Non basta: a dar retta alla particolare datazione in base al calendario ebraico, il 50° anniversario della morte sarebbe caduto quest’anno il 25 aprile, cioè nel giorno della Liberazione, altra data-clou per uno come lui che aveva dovuto fuggire in Svizzera per scampare a repubblichini e nazisti. Di più: in questo 2017 si sono quasi sovrapposti il periodo della Pasqua ebraica e quello della Pasqua cristiana, salta fuori il brano di una riflessione pronunciata in sinagoga in occasione di “Pesach 5725”, cioè della Pasqua del’65, pubblicato sia dal blog livornese di “cose ebraiche e dintorni” Comunitando sia sulla community “Livornesim” che nel web fa da punto di riferimento della tradizione ebraica labronica nel mondo.
Ma se cogliamo al balzo quest’incrociarsi di ricorrenze attorno alla figura di Bruno Polacco, è anche per mettere l’accento sul fatto che l’ebraismo livornese è un arcipelago di personalità che gli stessi livornesi non conoscono appieno.
FRA CHRISTIE E SOTHEBY
Eppure basterebbe dare un’occhiata ai cataloghi di Christie’s o Sotheby’s per accorgersi che nel dicembre scorso è stato aggiudicato per 125mila dollari, il doppio della base d’asta, una straordinaria “ketubbah” (accordo matrimoniale ebraico) datata Livorno, fine Seicento, appartenente a Shlomo Moussaieff, grande mercante di gioielli israelo-londinese.
Non è un caso singolo: non c’è volta in cui i big delle aste internazionali si occupino di oggetti della cultura ebraica senza che vi sia una qualche testimonianza più o meno rilevante proveniente da Livorno. Fino al Pentateuco, uno dei libri della Bibbia ebraica – stima al di sopra del milione di dollari – finito in una collezione londinese (Valmadonna Trust Library) dopo esser stato di proprietà del cabbalista seicentesco Jacob ben Aaron Sasportas che ha vissuto nei principali centri dell’ebraismo mondiale, incluso Livorno.
È anche una questione di numeri: forse è un po’esagerata l’idea che nel Sei-Settecento un livornese su otto fosse ebreo, ma – come ricorda il progetto di Italia Judaica guidato da Shlomo Simonsohn – nella seconda metà del Settecento a Livorno «nove tipografie stampavano qui opere ebraiche» e ad esse si aggiungevano «anche quattro tipografi cristiani» che «si dedicavano a questo tipo di produzione affiancati da collaboratori ebrei».
Non finisce qui. Si pensi a una sfilza di personaggi livornesi che hanno fatto la storia: come il filantropo sir Moses Montefiore, come lo studioso di cabala Elia Benamozegh e come il filosofo Haim Yosef David Azulai. Ma, passando dal Sette-Ottocento al secolo scorso, vengono dalla costola dell’ebraismo livornese anche altre figure che avranno un impatto (non solo locale) anche all’esterno della comunità ebraica: nella matematica con Federigo Enriques; in politica con il leader socialista Menè Modigliani; in letteratura con Alessandro D’Ancona e Sabatino Lopez; nell’arte con Ulvi Liegi, Vittorio Corcos e soprattuto Amedeo Modigliani.
IL TEMPIO PIÙ BELLO
La sinagoga livornese era considerata «una delle più belle d’Europa»: vi facevano tappa pressoché d’obbligo i potenti che transitavano dalla città. La ritroviamo in una delle rare incisioni ottocentesche aggiudicate (anch’esse al doppio della cifra di partenza) all’antevigilia del Natale 2015 da Sotheby’s a New York. Poteva resistere nel bel mezzo della zona nera della città più bombardata d’Italia nella seconda guerra mondiale? No, e sarà proprio il rabbino Polacco al fianco dei due Toaff, rabbino capo l’uno a Livorno (Alfredo) e l’altro a Roma (Elio), con Renzo Cabib presidente della comunità, a inaugurarlo mettendo alle spalle le polemiche fra chi avrebbe voluto riedificare il vecchio tempio e il diktat ministeriale di costruirne uno daccapo. Comunque, l’architetto Angelo Di Castro mette al centro della platea la Tevah – il palco dal quale si officia la funzione – costruita con i marmi rintracciati in mezzo alle rovine del vecchio tempio.
Pochi mesi più tardi, sarà Polacco a subentrare definitivamente a Toaff senior: era stato quest’ultimo a cercarlo nella fase finale del suo lungo rabbinato livornese per farsi affiancare da chi lo avrebbe rimpiazzato come punto di riferimento della comunità. Del resto, il destino livornese era sulla ruota del rabbino polacco fin da giovane: livornese era il rabbino Adolfo Ottolenghi che gli era stato maestro.
MA QUI IL GHETTO NO
Quegli anni a Venezia avevano plasmato quel che Polacco sarebbe stato: nato da sfollato con la madre che muore poco dopo il parto e il padre soldato non molto più tardi. Lo alleveranno gli zii ma la “famiglia” è quel contesto ad alta intensità di legami com’è il ghetto veneziano. Quest’esser rinchiusi che cementa un fortissimo senso di comunità e di identità fino a creare una parlata propria.
«Ma mi domando se non si stia scivolando in un paradosso. Le grandi celebrazioni che a Venezia ricordano il ghetto – dice ora Gadi Polacco, il figlio del rabbino Bruno – rischiano di trasformarsi in un ribaltamento della realtà : onori al ghetto in pompa magna. E qui da noi che abbiamo l’onore di essere l’unica città italiana con una forte comunità ebraica ma senza ghetto, cosa facciamo? Nulla. Il ghetto non c’era, dunque non c’è niente da mettere in cartolina. Eppure non dovrebbe essere un fiore all’occhiello per noi livornesi?».
Bruno Polacco proverà a far rivivere quel mondo ebraico con i testi delle sue commedie: dedicate in realtà al microcosmo veneziano più che a quello livornese. Anche se è vero che pure qui da noi gli ebrei avevano dato vita a una sorta di dialetto tutto loro: il bagitto. Il motivo? Forse avere una lingua franca che gli altri non potessero capire. Questo dovrebbe farci sospettare che a Livorno il clima nei riguardi degli ebrei, benché sicuramente assai meno pesante che altrove, non doveva essere tutto rose e fiori.
IN PIAZZA CAVALLOTTI
Comunque, l’intreccio fra ebrei e cristiani era quotidiano. Come al mercato di piazza Cavallotti: Livorno è una delle poche realtà in cui l’ebraismo è sì rappresentato dalla borghesia mercantile che tesse i commerci con gli altri pezzi di famiglia rimasti in altri scali mediterranei, ma è anche una bella fetta di proletariato urbano. E i banchi degli ambulanti ne erano un esempio: però ormai è un amarcord, gran parte di loro sono stati soppiantati da cinesi.
«Mi ricordo – dice Gadi Polacco – quando appena bambino il venerdì pomeriggio, poco prima che al tramonto scattassero i precetti del sabato, accompagnavo mio padre fra i banchi degli ambulanti. Era il suo modo di stare fra la gente: parecchi di loro non li avrebbe visti in sinagoga per la preghiera ma a lui interessava tendere la mano per far sentire loro di essere comunità». Poi aggiunge: «Questo senso di fraternità era il suo modo d’essere: le radici veneziane si mescolavano a un atteggiamento molto livornese. A distanza di tantissimi anni mi è capitato di incontrare persone che tenevano nel portafogli il ritaglio del vostro giornale con l’articolo sulla morte di mio padre».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Ma se cogliamo al balzo quest’incrociarsi di ricorrenze attorno alla figura di Bruno Polacco, è anche per mettere l’accento sul fatto che l’ebraismo livornese è un arcipelago di personalità che gli stessi livornesi non conoscono appieno.
FRA CHRISTIE E SOTHEBY
Eppure basterebbe dare un’occhiata ai cataloghi di Christie’s o Sotheby’s per accorgersi che nel dicembre scorso è stato aggiudicato per 125mila dollari, il doppio della base d’asta, una straordinaria “ketubbah” (accordo matrimoniale ebraico) datata Livorno, fine Seicento, appartenente a Shlomo Moussaieff, grande mercante di gioielli israelo-londinese.
Non è un caso singolo: non c’è volta in cui i big delle aste internazionali si occupino di oggetti della cultura ebraica senza che vi sia una qualche testimonianza più o meno rilevante proveniente da Livorno. Fino al Pentateuco, uno dei libri della Bibbia ebraica – stima al di sopra del milione di dollari – finito in una collezione londinese (Valmadonna Trust Library) dopo esser stato di proprietà del cabbalista seicentesco Jacob ben Aaron Sasportas che ha vissuto nei principali centri dell’ebraismo mondiale, incluso Livorno.
È anche una questione di numeri: forse è un po’esagerata l’idea che nel Sei-Settecento un livornese su otto fosse ebreo, ma – come ricorda il progetto di Italia Judaica guidato da Shlomo Simonsohn – nella seconda metà del Settecento a Livorno «nove tipografie stampavano qui opere ebraiche» e ad esse si aggiungevano «anche quattro tipografi cristiani» che «si dedicavano a questo tipo di produzione affiancati da collaboratori ebrei».
Non finisce qui. Si pensi a una sfilza di personaggi livornesi che hanno fatto la storia: come il filantropo sir Moses Montefiore, come lo studioso di cabala Elia Benamozegh e come il filosofo Haim Yosef David Azulai. Ma, passando dal Sette-Ottocento al secolo scorso, vengono dalla costola dell’ebraismo livornese anche altre figure che avranno un impatto (non solo locale) anche all’esterno della comunità ebraica: nella matematica con Federigo Enriques; in politica con il leader socialista Menè Modigliani; in letteratura con Alessandro D’Ancona e Sabatino Lopez; nell’arte con Ulvi Liegi, Vittorio Corcos e soprattuto Amedeo Modigliani.
IL TEMPIO PIÙ BELLO
La sinagoga livornese era considerata «una delle più belle d’Europa»: vi facevano tappa pressoché d’obbligo i potenti che transitavano dalla città. La ritroviamo in una delle rare incisioni ottocentesche aggiudicate (anch’esse al doppio della cifra di partenza) all’antevigilia del Natale 2015 da Sotheby’s a New York. Poteva resistere nel bel mezzo della zona nera della città più bombardata d’Italia nella seconda guerra mondiale? No, e sarà proprio il rabbino Polacco al fianco dei due Toaff, rabbino capo l’uno a Livorno (Alfredo) e l’altro a Roma (Elio), con Renzo Cabib presidente della comunità, a inaugurarlo mettendo alle spalle le polemiche fra chi avrebbe voluto riedificare il vecchio tempio e il diktat ministeriale di costruirne uno daccapo. Comunque, l’architetto Angelo Di Castro mette al centro della platea la Tevah – il palco dal quale si officia la funzione – costruita con i marmi rintracciati in mezzo alle rovine del vecchio tempio.
Pochi mesi più tardi, sarà Polacco a subentrare definitivamente a Toaff senior: era stato quest’ultimo a cercarlo nella fase finale del suo lungo rabbinato livornese per farsi affiancare da chi lo avrebbe rimpiazzato come punto di riferimento della comunità. Del resto, il destino livornese era sulla ruota del rabbino polacco fin da giovane: livornese era il rabbino Adolfo Ottolenghi che gli era stato maestro.
MA QUI IL GHETTO NO
Quegli anni a Venezia avevano plasmato quel che Polacco sarebbe stato: nato da sfollato con la madre che muore poco dopo il parto e il padre soldato non molto più tardi. Lo alleveranno gli zii ma la “famiglia” è quel contesto ad alta intensità di legami com’è il ghetto veneziano. Quest’esser rinchiusi che cementa un fortissimo senso di comunità e di identità fino a creare una parlata propria.
«Ma mi domando se non si stia scivolando in un paradosso. Le grandi celebrazioni che a Venezia ricordano il ghetto – dice ora Gadi Polacco, il figlio del rabbino Bruno – rischiano di trasformarsi in un ribaltamento della realtà : onori al ghetto in pompa magna. E qui da noi che abbiamo l’onore di essere l’unica città italiana con una forte comunità ebraica ma senza ghetto, cosa facciamo? Nulla. Il ghetto non c’era, dunque non c’è niente da mettere in cartolina. Eppure non dovrebbe essere un fiore all’occhiello per noi livornesi?».
Bruno Polacco proverà a far rivivere quel mondo ebraico con i testi delle sue commedie: dedicate in realtà al microcosmo veneziano più che a quello livornese. Anche se è vero che pure qui da noi gli ebrei avevano dato vita a una sorta di dialetto tutto loro: il bagitto. Il motivo? Forse avere una lingua franca che gli altri non potessero capire. Questo dovrebbe farci sospettare che a Livorno il clima nei riguardi degli ebrei, benché sicuramente assai meno pesante che altrove, non doveva essere tutto rose e fiori.
IN PIAZZA CAVALLOTTI
Comunque, l’intreccio fra ebrei e cristiani era quotidiano. Come al mercato di piazza Cavallotti: Livorno è una delle poche realtà in cui l’ebraismo è sì rappresentato dalla borghesia mercantile che tesse i commerci con gli altri pezzi di famiglia rimasti in altri scali mediterranei, ma è anche una bella fetta di proletariato urbano. E i banchi degli ambulanti ne erano un esempio: però ormai è un amarcord, gran parte di loro sono stati soppiantati da cinesi.
«Mi ricordo – dice Gadi Polacco – quando appena bambino il venerdì pomeriggio, poco prima che al tramonto scattassero i precetti del sabato, accompagnavo mio padre fra i banchi degli ambulanti. Era il suo modo di stare fra la gente: parecchi di loro non li avrebbe visti in sinagoga per la preghiera ma a lui interessava tendere la mano per far sentire loro di essere comunità». Poi aggiunge: «Questo senso di fraternità era il suo modo d’essere: le radici veneziane si mescolavano a un atteggiamento molto livornese. A distanza di tantissimi anni mi è capitato di incontrare persone che tenevano nel portafogli il ritaglio del vostro giornale con l’articolo sulla morte di mio padre».
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