Il Tirreno

Livorno

la nuova inchiesta

Delitto del Romito, c’è il Dna dell’assassino: «Il parà ucciso per soldi»

di Federico Lazzotti
Il sottoufficiale Marco Mandolini a destra con il generale Bruno Loi in Somalia
Il sottoufficiale Marco Mandolini a destra con il generale Bruno Loi in Somalia

Livorno, a distanza di 19 anni riaperta l’indagine sull’omicidio di Marco Mandolini, massacrato sugli scogli del Romito il 13 giugno del 1995

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LIVORNO. Per riuscire ad aggredire a mani nude un Rambo come “Condor Mike”, nome in codice di Marco Mandolini, sottoufficiale della Brigata paracadutisti Folgore, battaglione “Col Moschin”, massacrato all’età di 35 anni la notte del 13 giugno del 1995 sugli scogli del Romito, serviva un altro Rambo, e soprattutto un movente talmente valido da mettere a repentaglio la propria vita nel tentativo di portare a termine un simile piano criminale.

È ripartita da questa tesi e dal progresso nelle indagini di laboratorio che hanno permesso di isolare il dna dell’assassino, la terza inchiesta in quasi 20 anni per cercare di fare luce su uno dei delitti irrisolti più intricati e chiacchierati della storia criminale della provincia di Livorno.

Sì perché questo omicidio militare è stato di volta in volta associato a piste che portavano al mondo omosessuale prima, ai servizi segreti poi, fino ad arrivare a parlare di un vero e proprio giallo di Stato, dove si sarebbero intrecciati tanti misteri: sospetti sull'uso di proiettili all'uranio impoverito con cui la vittima sarebbe venuto a contatto, traffici d'armi, personaggi e luoghi legati al caso Gladio, fino alla tragedia di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa a Mogadiscio nel '94 insieme all'operatore Miran Hrovatin. Quest’ultima pista seguita perché il maresciallo Mandolini, proprio nel 1994, era in missione in Somalia come caposcorta del generale Bruno Loi.

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Ora i carabinieri del nucleo investigativo, coordinati dai pubblici ministeri Alessandro Crini e Massimo Mannucci, hanno tirato una riga e preso una direzione precisa, tratteggiando sia il profilo dell’assassino: un collega o comunque un militare capace di aggredire la vittima, colpirla con una quarantina di coltellate e poi finirlo fracassandogli la testa con un sasso di venticinque chili; sia il movente, quel denaro che molti paracadutisti della Folgore, in quegli anni, avevano investito, dopo aver fatto cassa rischiando la vita nelle missioni all’estero, in una finanzia che prometteva interessi da capogiro e che invece si è poi rivelata una fregatura miliardaria (si parla di vecchie lire).

Ecco perché per riscaldare questo secondo “cold case” riaperto dalla Procura di Livorno nel 2013 dopo quello sull’’omicidio di Francesco Della Volpe, gli investigatori si sono spinti fino ad Alessandria, in Piemonte, per andare a caccia di quel che resta della Con.Fin. Service, una società di consulenza bancaria che tra gli anni Ottanta e Novanta offriva interessi da capogiro a chi era disposto a investire soldi freschi.

«C’era un promotore interno alla Folgore - confermano gli inquirenti - che proponeva l’affare offrendo come garanzia la sua appartenenza al corpo e molti, tra cui anche la vittima, avevano aderito».

Ma in realtà dietro alla società si sarebbe nascosta la classica catena di Sant’Antonio dove i soldi di chi entrava per ultimo venivano consegnati come prova del buon affare agli “azionisti” che avevano investito poco prima. Ecco perché il gioco è funzionato finché la base della piramide ha continuato ad allargarsi.

E questo è durato fino all’8 giugno 1995, quando la società è stata dichiarata fallita e i vertici finiti in manette.

Cinque giorni dopo il crac un ragazzino tedesco in vacanza sul Romito, con i genitori, intorno alle 9 di sera si è trovato di fronte a delle chiazze di sangue che dalla strada Aurelia portavano fino al cadavere del paracadutista. Possibile che i due eventi siano collegati? Verosimile che qualcuno che è rimasto fregato dall’affare si sia voluto vendicare nei confronti di chi gli aveva garantito un guadagno sicuro? O forse il contrario?

A questa tesi danno forza alcune testimonianze raccolte dagli investigatori nonostante la reticenza di chi oggi, parà in pensione, allora visse sulla propria pelle il fallimento di questo investimento. «Prima del crac della società - hanno raccontato - si innescò un meccanismo infernale dove chi aveva capito di aver perso i suoi soldi cercava di convincere i colleghi ad investire, ma solo per riprendere ciò che aveva perduto».

A questo va aggiunto un altro particolare, confermato anche dai familiari della vittima: la volontà del 35enne di farla finita con la vita militare - ancora non sapeva di aver contratto una malattia che forse lo avrebbe ucciso - e di investire i propri risparmi per aprire un villaggio turistico ai Caraibi.

Invece il suo progetto si è infranto sugli scogli del Sassoscritto dove - secondo gli investigatori - aveva appuntamento con qualcuno che conosceva, e che si è trasformato nell’ suo assassino. Un Rambo che ha lasciato il suo Dna. E se la pista della Procura è giusta c’è un parà che sta tremendo all’idea di comparare il proprio profilo genetico con quello dell’assassino.

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