Il Tirreno

Livorno

Fra i martiri delle Fosse Ardeatine quei quattro livornesi fuori dai cliché

di Mauro Zucchelli
Fra i martiri delle Fosse Ardeatine quei quattro livornesi fuori dai cliché

Due prof di filosofia (azionista l’uno e socialista l’altro), un alto ufficiale dei parà (monarchico) e un radiotelegrafista della Marina (che aveva perso il lavoro perché rifiutava la tessera fascista)

24 marzo 2014
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LIVORNO. Nella via crucis di dolore, bombe e morte che porterà la città (e il Paese) alla fine della guerra e alla liberazione dai nazifascisti, anche a settant'anni di distanza l’anniversario di oggi – il 70° dell'eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma – ha molte cose da raccontare. Soprattutto a noi livornesi. La riprova? Il fatto che fra i 335 martiri della rappresaglia nazista c’erano tre livornesi, anzi quattro. Non solo: sono il simbolo del fatto che la Resistenza è stata, nel segno della riconquista della libertà, un sussulto assai più plurale di quanto ci s'immagini, tanto dal punto di vista sociologico quanto sotto il profilo politico.

Sono quattro i livornesi assassinati dai nazisti: Umberto Lusena, maggiore dei parà del reggimento Nembo; Ilario Zambelli, sottufficiale telegrafista; Odoardo Della Torre, avvocato ebreo; Pilo Albertelli, prof di storia e filosofia (che dal '32 al '35 ha insegnato nel liceo classico della nostra città).

A tutti e quattro sono stato intitolate strade (minori) nella nostra città: via Lusena è nei pressi dello stadio, via Zambelli è una traversa di viale della Libertà, via Della Torre la troviamo a Coteto e via Albertelli costeggia villa Fabbricotti (ed è l’indirizzo di una scuola elementare dedicata al prof-partigiano). Eppure sono figure che non sono rimaste nella memoria collettiva: solo attorno alla figura di Albertelli si sono riaccesi per un po’ i riflettori grazie al testo che Paolo Zanetti ha fatto per conto delle associazioni antifasciste e che è stato pubblicato dal Comune (è reperibile anche sul web nel settore del sito municipale dedicato a “Cn on-line”).

Non è singolare che sia proprio l'Anpi, custode numero uno di quella memoria, a chiedere di riscoprire figure che pure sembrano slabbrare il cliché del partigiano-tipo? No, se appunto l'idea è mostrare la pluralità della Resistenza.

Decisamente fuori dai canoni standard delle liturgie celebrative è, per dirne una, Umberto Lusena: e non solo perché parliamo di un alto ufficiale. Nasce a Livorno lo stesso giorno d'un settembre d'inizio '900 in cui, su proditoria istitigazione del figlio del viceconsole britannico, sul pratino a lato della chiesa del Soccorso i livornesi scoprono il fascino d'un nuovo gioco con due squadre contrapposte che danno calci a un pallone finché finisce all'interno di uno spazio delimitato da due pali.

È figlio di un generale ebreo, viene indicato fra i legionari dannunziani anche se negli elenchi ufficiali al Vittoriale ci sono altri 21 nomi di livornesi ma non il suo), riesce perfino a dribblare le leggi razziali. Eppure dopo l'8 settembre '43, in nome di una certa idea di Italia e di italiani, si rivolta contro i tedeschi e alla testa di un battaglione di arditi paracadutisti combatte contro i carri armati nazisti che vanno a occupare Roma. Si schiera dalla parte dei partigiani ma con il Fronte militare clandestino, una formazione di ufficiali di orientamento monarchico, guidati da quel Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo che è il capo della segreteria di Badoglio in mezzo al caos generato dalla fuga di casa Savoia.

In via Tasso, a Roma, lì dove ora c'è il museo della liberazione, nella cella 1 lo torturano («uno dei detenuti più atrocemente seviziati», dirà un libro di Marisa Musu e Ennio Polito) ma regge alla tentazione di fare il nome di altri partigiani. Lo vanno a prendere lì per fucilarlo: nell'ex cava-tomba gli ritroveranno poi addosso, macchiata di sangue, la lettera che stava scrivendo ai familiari sforzandosi di usare toni spensierati per non far loro capire la fine che lo attendeva.

Si potrebbe qui aprire una parentesi nel nome di Costanzo Ebat, livornese, anche lui militare (tenente colonnello di artiglieria con tanto di medaglia d’argento al valore militare): il suo nome non figura tra i martiri delle Fosse Ardeatine, lo prenderanno cinque giorni dopo l’eccidio grazie a una spiata. Come Lusena e come Albertelli finirà nelle mani degli aguzzini di via Tasso per esser consegnato al plotone d’esecuzione all’inizio di giugno.

Era un militare anche Ilario Zambelli, certificato di nascita targato isola d’Elba. Ma un militare con una parabola di carriera un po’ inconsueta. Basti dire che non si iscrive al partito fascista neanche quando questa scelta gli costa il posto da impiegato all’ufficio postale. È lo Stato fascista ad avere bisogno di lui in Marina e a richiamarlo in servizio come radiotelegrafista prima per i fari elbani e poi a Roma. È nel gruppo della Marina militare che ha rifiutato Salò: un tipo della X Mas lo riconosce in piazza San Pietro mentre sta distribuendo volantini sovversivi. Gliela faranno pagare duramente nella cella 380 di Regina Coeli fino a spedirlo sanguinante all’ultima tappa della via crucis alla Fosse Ardeatine.

Odoardo Della Torre, classe 1894, invece non porta l’uniforme bensì la toga: laurea in giurisprudenza e in filosofia, è nato a Livorno ma la sua attività professionale è a Roma: finché non arrivano le leggi razziali a togliergli tanto la cattedra di prof come l’iscrizione all’albo forense. Era socialista, lo arresteranno giusto sei giorni prima di consegnarlo al boia alle Ardeatine .

Era prof di filosofia (e storia) anche Pilo Albertelli, che invece era nato a Parma in una famiglia antifascista doc con padre deputato socialista (mentre Pilo sarà più liberalsocialista, al punto da risultare fra i fondatori del Partito d’azione (e in campo partigiano di Giustizia e Libertà). A Livorno lo troviamo nel ’32 come insegnante al liceo classico (ma anche con una sorta di incarico part time all’istituto Sacro Cuore). Brillante studioso di filosofia greca antica, soprattutto Parmenide, ma anche dirigente partigiano, e non di quelli che restavano alla scrivania a far strategie: pochi giorni dopo l’8 settembre ’43 è lui a mettere la bomba nella caserma della milizia ai Parioli. Lo sa bene che quando lo beccheranno non andranno per il sottile. Resta per 4 settimane nelle mani della famigerata banda Koch dei torturatori di regime, quando lo spediscono alle Ardeatine quansi non lo riconoscono più neanche i compagni di carcere. Alla fidanzata Lia, poi diventata moglie, qualche anno prima aveva scritto: «Un uomo senza ideali non è un uomo ed è doveroso sacrificare, quand’è necessario, ogni cosa per questi ideali».

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