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Minà, istantanee di una leggenda: «Eravamo io, Alì e Gabriel»
Gianni Minà, i big del mondo al suo microfono: li faceva parlare mettendoli a loro agio. A cena con De Niro, Leone, Garcia Marquez e le confidenze di Castro e Maradona
Correva il 1987. I colleghi con cui Minà divideva una delle tante avventure giornalistiche gli chiesero curiosi di quel viaggio a Cuba e dell’intervista a Fidel Castro: «Dai, Gianni, dicci di FIdel». I ricordi di quei vecchi amici che ora rimbalzano sui social, si allentano inevitabilmente in uno spagnolo/cubano un po’ maccheronico, che fa ancora più leggenda. Minà: «L’intervista a Fidel è stata lunghissima - 16 ore di video girato, ndr - quindi di cose che non andranno in tv ce ne sono tante. La più bella è quando Fidel mi ha chiesto dell’elezione di Cicciolina in Parlamento…»
Fidel Castro: «Compañero Juan, es verdad que in Italia hai una pornoestar en el Parlamento?»
Minà: «Sì, es verdad».
Fidel Castro: «Compañero Juan, Italia es una verdadera democracia!».
Ecco come cinicamente, spietatamente e cialtronescamente un gruppo di vecchi e giovani amici di Gianni potevano tramandare oralmente la visione politica di uno dei leader mondiali del 900 intervistato da Minà. Cicciolina in Parlamento non era sfuggita al Lider Maximo. Il mondo di Gianni Minà tracima dalle sue stesse interviste, dai suoi articoli, dai suoi reportage. Non c’entra una vita lì dentro. Gianni non aveva il concetto di “carriera”, anche se teneva al suo lavoro in maniera totale, la considerava semplicemente vita. Il microfono, la telecamera, la diretta, la tv, i giornali, quel turbinio di facce che lasciavano tutti noi a bocca aperta - Maradona, Cassius Clay/Muhammad Alì, Fidel Castro, il Dalai Lama, Bob De Niro, Sergio Leone, Troisi, Pietro Mennea, Adriano Panatta, Garcia Marquez, Ella Fitzgerald, Sepulveda, Galeano, Martin Scorsese e Oliver Stone, Paulo Roberto Falcao e Paolo Rossi, Smith & Carlos, fino a Edoardo Vianello che cantava i “Watussi” nel suo salotto di casa… - erano in fin dei conti la stessa cosa. Una centrifuga. L’intera vita di Gianni Minà, quel giornalista simpatico, piombato sempre trafelato con un microfono in mano nei salotti degli italiani, è un compagno di storie e di racconti. La leggenda di Gianni è cresciuta parimenti all’aneddotica e allo slang tv che modificava il nostro modo di vedere, giudicare, e anche parlare: «E chi sei Minà?», «Ma chi è quello con barba, berretto e sigaro accanto a Minà?». Oppure «Cosa dovrei dire io? M’han sorpreso con Minà» (1990, “Sotto questo sole”, Belli e Baccini). Oliver Stone infilò il suo nome dentro “Natural Born Killers”: «Come Gianni Minà che ha intervistato Fidel Castro…». Poi diventato nella versione italiana: «Come quel giornalista italiano…»
Minà ebbe una produzione monumentale come intervistatore, documentarista, produttore e conduttore tv. “Blitz” è l’antitesi della nazional popolare “Domenica In”. Ma era un giornalista totale, assoluto, capace di passare da Tuttosport al Corriere dello Sport, dalla Rai a Repubblica - dove ho avuto la possibilità di incontrarlo e frequentarlo - in una geniale capacità di spogliarti e aprirti Maradona o Muhammad Alì sotto al naso.
Minà sapeva ascoltare i protagonisti, sapeva far parlare, metteva a proprio agio. Era immediato, non aveva grande frequentazione della macchina da scrivere, se non c’era una telecamera, dettava direttamente i suoi articoli. Sempre di una lunghezza impossibile da governare. Era un peccato tagliarli quegli articoli, ma anche inevitabile se si voleva che comunque quel tesoro raggiungesse telespettatori e lettori.
Era simpatico, socievole, sempre sorridente. Ma anche schierato, militante. Ai Mondiali in Argentina disse a Videla: «Si dice che qui sparisca la gente». E dopo gli fu consigliato di andarsene. Castro, Che Guevara e il Subcomandante Marcos ce li aveva dentro. Spiegava agli italiani, Minà, che la verità non era solo quella di vetrina: che Cassius Clay non era solo un bizzoso renitente alla leva, ma un paladino dei diritti dei neri d’America e dunque non più Clay ma Alì. Pagò con la sua stessa emarginazione in Rai, questa tanta intraprendenza e militanza. Ha sofferto molto veder accontonato nel dimenticatoio il suo lavoro..
Il suo amico Troisi ha fatto diventare leggenda la sua agenda: «Lui sull’agendina c’ha Fidel. Senza Castro… Prefisso 00 e via, chiama Fidel. Quando Pino Daniele gli ha detto: Gianni, chiama Massimo, lui ha preso l’agendina e via: fratelli Taviani, Little Tony, Toquinho e Troisi». Memorabile.
La foto con Muhammad Alì, Robert De Niro, Sergio Leone e Garcia Marquez la sintesi di una vita intera. Gianni raccontava la genesi di quella cena da Checco Er Carrettiere a Trastevere arricchendolo ogni volta e finendo col farne un racconto surreale, epico, declamato in un improbabile slang romanesco. Lui che era torinese (e torinista convinto) . «Stavo a casa con Muhammad Alì e mi chiama De Niro. Gli dico: vado a cena con Muhammad. E lui: come, vai a cena con Alì e non mi dici niente? No, io vengo con te. Poi mi chiama Sergio Leone e fa: guarda che De Niro stasera non può venire a cena con te, abbiamo un incontro per il film. Ma io che c’entro? Stavo andando a cena con Muhammad, è Bob che ha detto: vengo anche io. Alì? Stai andando a cena con Alì? Allora vengo pure io. Poi mentre stiamo per uscire chiama Garcia Marquez e mi dice: veramente dovevo andare a cena con Leone, ma mi ha detto che viene con te, allora a questo punto vengo da te… E va bene, vieni, vieni».
Se non esistesse quella foto nessuno crederebbe a un racconto così strampalato, assurdo. Ma con Gianni era possibile. In quel momento davvero avremmo voluto tutti essere Gianni Minà.
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