Il Tirreno

La mia Opera bella

di Maria Meini
Sarah Schinasi al termine di Don Carlo a Tel Aviv, dietro di lei il maestro Daniel Oren
Sarah Schinasi al termine di Don Carlo a Tel Aviv, dietro di lei il maestro Daniel Oren

Sarah Schinasi regista per il Don Carlo di Daniel Oren  

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CECINA. L’arte Sarah Schinasi l’ha respirata fin da piccola perché il babbo Daniel - inventore del Neofuturismo, autore di storici murales nelle stazioni ferroviarie italiane ed europee - è un nome della pittura del Novecento. Ma la strada di Sarah, padre ebreo livornese, mamma cecinese, si è diramata verso un altro approdo artistico: quello della lirica, dalla regia alla recitazione. E l’ha proiettata su palcoscenici internazionali, in Italia, Spagna, Stati Uniti (dove ha messo a punto un metodo di recitazione pensato per i cantanti lirici), Israele. Ha lavorato con Zubin Mehta. Ora è a Tel Aviv, dove ha debuttato la scorsa settimana con un Don Carlo diretto dal maestro Daniel Oren, altro mostro sacro della musica. E ha già in programma per giugno la regia di Turandot al teatro Galdos di Las Palmas, nella Gran Canaria.

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Sarah, come ha cominciato la sua attività artistica?

«Ho iniziato a studiare come pianista al Conservatorio superiore Pietro Mascagni a Livorno diplomandomi in piano. Da lì sono usciti tanti bravissimi musicisti sparsi nel mondo: la spalla del Maggio Musicale Fiorentino, maestro Domenico Pierini con lui abbiamo suonato assieme ai tempi del Mascagni; e ancora Rizzelli, Fiorenzani, Francesca Tosi e tanti altri bravissimi. All’Università di Pisa decisi di studiare storia, letteratura e teatro europeo laureandomi in Lingue e drammaturgia con una tesi su “Carmen dalla novella di Mérimée alla Carmen di George Bizet”. Fu subito dopo aver terminato gli studi al Mascagni di piano che sono partita per Londra, alla Royal Central School of Speech and Drama, per studiare recitazione perché ho sempre voluto vivere il teatro. Era quello che volevo fare, e la musica unita al teatro è l’opera».

Riavvolgiamo il nastro: ci racconti come è nato l’ultimo lavoro con Daniel Oren. E come descriverebbe lavorare con un mostro sacro come Oren?

«Collaboro con l’Opera di Israele da molti anni e dal 2012 con Shirit Lee Weiss, direttrice del Young Programme dell'Opera Studio di Israele, Milca Leon specialista di Laban-Bartenieff dell’Università di Haifa e con il maestro Stephen Wandsworth che mi invita al Vocal Institute di Juilliard a New York.

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Don Carlo è una produzione creata nel 2010 con la coproduzione dei teatri di Bilbao, Oviedo, Siviglia e Festival di Tenerife. Dalla regia originale del M° Del Monaco ho ripreso e completato la versione francese prima nella produzione del 2015 a Bilbao e in seguito ho cofirmato come regista l’apertura dell’80° Maggio musicale Fiorentino l’anno scorso con Zubin Mehta.

La produzione è stata invitata qui e mi sono trovata questa volta a collaborare alla realizzazione dello spettacolo con un altro grande maestro, Daniel Oren.

Il lavoro con Oren è un continuo challenge sicuramente, e anche un’occasione per provare come la regia e la parte musicale devono entrambe sostenersi e cercare di andare incontro vicendevolmente. Insomma un vero lavoro di equipe. Lo sforzo è stato intenso perché avevamo molte prise de role (debutti) a parte Juan Jesus Rodriguez che per la terza volta faceva la produzione (a Firenze era l’eccellente Massimo Cavalletti), un cast doppio incluso il ruolo del paggio Tebaldo, Ira Bertman una bellissima Elisabetta, Ionut Pascu l’altro bravissimo Rodrigo e Judith Kutassi con Ketevan Kemoklidze come fantastiche principesse di Eboli, Simone Lim e Insungh Sim come Re Filippo, Oshri Regev come il Conte di Lerma, Euvegueni Orlov come Inquisitore, Tal Ganor come Tebaldo e molti altri fantastici artisti...
Con il M° Oren abbiamo lavorato analizzando le necessità musicali in rapporto alla regia, e alla fine il pubblico ha definito la produzione come la migliore degli ultimi 5 anni».

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Cosa fa la differenza nel suo mondo?

«La differenza nel mio mondo? Sicuramente la tenacia, nervi solidi per il numero di persone da gestire sia a livello artistico che umano. La serietà e la disciplina nel lavoro sono il motore che mi fanno andare avanti, e la concentrazione».

In cosa consiste il suo lavoro e il suo metodo in particolare?

«Il lavoro del regista per il mio modo di lavorare si basa su una formazione musicale italiana, con una scuola di regia italo-tedesca molto basata su Felsenstein, di cui ho avuto la fortuna di ricevere un’eredità diretta da Gian Carlo Del Monaco e dall’influenza nel teatro fisico di Rina Yerushalmi. Stephen Wandsworth nella sua grande profondità drammaturgica rimane a New York il mio punto di riferimento sia nella collaborazione professionale (ho rimontato per lui la produzione del Metropolitan di Iphigeni en Taurinde nel 2008) che a livello pedagogico per il suo trentrennale impegno in Juilliard e al Lindemman Programme del Metropolitan che per la raffinatezza del lavoro drammaturgico che mi ispira. Il cantante deve saper recitare come un attore, ma creare un suono. Emetterlo, dando il senso alle parole e ai movimenti, è una mozione molto complessa».

Quanto conta nella sua carriera il rapporto con suo padre e la sua arte pittorica?

«Da mio padre Daniel e anche da mia madre Manuela ho preso la disciplina e l’amore per la lettura, la curiosità e il rispetto per il dettaglio, dalle grandi pitture di Delacroix alle forme geometriche cubiste, alla relazione con lo spazio che nel Neofuturismo è così definito: mi sono utili per la visualizzazione nello spazio del palcoscenico».

Come concilia la professione con la vita privata?

«La vita professionale e quella privata necessitano molta organizzazione, è basilare la vicinanza di persone che capiscano come si vive in teatro, anche se io riesco a costruire quasi sempre una quotidianità anche quando lavoro e viaggio».

Qual è il suo lavoro più importante?

«Trovo sempre nella mia attività una grande fonte di gioia, anche di fatica e stress a volte, ma quando vedi che gli artisti e il pubblico sono felici, sai che hai fatto un buon lavoro».

Un sogno nel cassetto.

«Ho appena firmato, prima di arrivare a Tel Aviv, La Figlia del Reggimento al Teatro Verdi di Trieste: il teatro mi ha detto che sia stato un successo di pubblico, io non c’ero perché ero gia a fare le prove qui a Tel Aviv, ma il lavoro di team ha dato un bel risultato. Un sogno sicuramente è produrre un film d’opera».

Quanto si sente italiana e quanto conta la sua origine ebraica.

«L’italianità e l’ebraicità vanno insieme: la comunità ebraica italiana ha 1000 anni, è la più vecchia della diaspora. La toscanità va in primis: l’accento toscano mi è rimasto anche vivendo all’estero e parlando varie lingue, lavorare a Firenze l’anno scorso è stato bellissimo, uscire dalla prove e vedere quel tramonto sul lungarno o la mattina mentre andavo in teatro attraversando il ponte della Carraia... Noi siamo di origine spagnole, quindi sefarditi, e livornesi ormai dal 1600 grazie alle Livornine del Granduca Ferdinando. L’accento livornese piace così tanto ai bambini del maestro Oren, non l’avevano mai sentito pima: Romaine era nel coro della Carmen 5 anni fa ed è bravissima a fare la mia imitazione, abbiamo riso molto».

Ci descriva il suo carattere usando tre aggettivi.

«Direi che sono paziente, solare, perseverante».

Un ricordo o un’immagine della sua famiglia.

«Ultimamente, come per una rispettosa famiglia ebrea da “Lessico famigliare” cioè abbastanza buffi, l'immagine per l’apertura del Maggio musicale Fiorentino, inclusa la nonna centenaria maremmana, a salutare dalla terza fila in platea tutti contenti con la manina come se io dal palcoscenico fossi in partenza per un viaggio su un treno».

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