Il Tirreno

Toscana

La testimonianza

«Vivo da scarafaggio, ma i soldi mi servono»: abbiamo parlato con un operaio del distretto cinese della moda in Toscana – «Sognavo la Germania...»

di Libero Red Dolce

	Il racconto dell'operaio 31enne 
Il racconto dell'operaio 31enne 

Turni massacranti e diritti inesistenti: «Prima lavoravo sette giorni su sette, almeno per dodici ore. Le pause? No era una sola pausa, a pranzo, per mangiare. Non più di quindici minuti. A volte meno. E poi i turni di notte, perché non ci si fermava mai»

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PRATO. «Dopo 12-14 ore di lavoro non mi resta molto tempo, prendo la bici, vado a casa e riposo un po’. Vivo insieme ad altre cinque persone, tutti operai, con alcuni lavoriamo insieme. Dello stipendio che mi dovrebbero dare non sempre ogni mese arriva tutto, ma io quei soldi li mando ai miei familiari in Pakistan. Qui faccio la vita di uno scarafaggio». Prato.  Muhammad (nome di fantasia per proteggere la sua identità, ndr) ha 31 anni e potremmo chiamarlo un “lavoratore parallelo”. Lavora nel distretto della moda cinese – il distretto “parallelo” appunto – che prova a rimanere invisibile nella catena di fornitura ufficiale ma che da decenni è un pilastro portante di una filiera produttiva che, accanto a realtà trasparenti e tracciate, alimenta il mercato della moda.

Storie che si confondono

Spesso storie come quella di Muhammad si perdono nel calderone di vicende simili. Progetti, speranze e ambizioni — in sintesi, vite — finiscono per confondersi, ridotte a numeri, ore di lavoro e alla paura di restare senza stipendio o senza un tetto. Venendo meno alle ragioni per cui hanno affrontato lunghissime e pericolosissime rotte migratorie: aiutare chi rimane a casa.

Il peso del lavoro sulla vita

Eppure è dal riconoscimento di questo primato oppressivo del lavoro sulla vita che spera che le cose possano cambiare. «Prima lavoravo sette giorni su sette, almeno per dodici ore. Le pause? No era una sola pausa, a pranzo, per mangiare. Non più di quindici minuti. A volte meno. E poi i turni di notte, perché non ci si fermava mai», racconta.

Un piccolo cambiamento

Nell’ultimo periodo le cose sono un po’ migliorate, se così si può dire. «Sono passato a lavorare sei giorni su sette, mi posso riposare un po’». Non gli hanno spiegato perché il ritmo è cambiato. E lui non ha chiesto. Anche se pensa che i padroni della ditta di confezionamento dov’è impiegato possano avere avuto paura della controffensiva sindacale che sta spingendo i lavoratori ad organizzarsi per reclamare giusto salario, orari di lavoro a norma di legge e condizioni di igiene adeguate. In una parola: diritti.

Paura e sindacato

Non è sindacalizzato. Dei suoi colleghi che hanno deciso di unirsi alle lotte delle sigle sindacali parla con rispetto e un po’ di paura. Paura di finire nel mirino. Ha visto quello che è successo agli operai in sciopero al Macrolotto, a Euroingro, in via Genova, lo scorso anno all’Acca Srl e le decine di aggressioni pubbliche che da qualche tempo che stanno definendo un clima ben preciso. Chi si ribella rischia di pagare caro.

La realtà quotidiana

«La situazione è questa e il capo non vuole discussioni tra di noi per il lavoro. Non mi hanno mai minacciato, ma se voglio lavorare e avere i soldi devo fare così». Pensava che fosse diverso. Non ha voglia di parlare del suo viaggio per raggiungere l’Italia, ma si capisce che deve avere vissuto tanto dolore. Troppo. «Io volevo andare in Germania ma alla fine sono rimasto qui, ci hanno detto che ci avrebbero trovato un lavoro in una ditta italiana della moda e che ci avrebbero pagato almeno 1.400 euro al mese».

Stipendi ridotti e tagli

Non è una cifra che normalmente finisce nelle sue tasche però. «A volte mi pagano anche meno di mille euro, altre volte di più. Ma devo insistere, dicono che i soldi non ci sono». I padroni hanno trovato questo sistema per abbattere i costi. Non si può tagliare su macchinari e costi dell’energia, che anche anzi sono cresciuti. Si taglia sugli stipendi. E pazienza se Muhammad e gli altri sono costretti a vivere da “scarafaggi”. Made in Italy must go on.

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