La professoressa Liliana Dell’Osso: «Kessler, simbiosi patologica sfociata nel suicidio assistito»
La presidente della Società Italiana di Psichiatria analizza la sincronizzazione esistente fra gemelli
Non si è ancora affievolita l’eco della scelta delle sorelle Alice ed Ellen Kessler, che, decidendo di ricorrere insieme al suicidio assistito, hanno rilanciato gli interrogativi, tuttora irrisolti, di natura etica, culturale e umana sulla solitudine e sulla fragilità connesse all’ultima stagione dell’esistenza. A tutto questo si aggiunge, in questo caso, la straordinaria sincronizzazione emotiva e comportamentale legata alla simbiosi esistente tra gemelli. È su quest’ultimo elemento che si sofferma in questa intervista la professoressa Liliana Dell’Osso, presidente della Società Italiana di Psichiatria.
Professoressa Dell’Osso, il caso delle gemelle Kessler, che hanno vissuto vite parallele, praticamente all’unisono, che cosa ci rivela dal punto di vista psichico e relazionale? Quali aspetti della loro storia risultano particolarmente significativi per comprendere la dinamica dei rapporti profondi?
«In psichiatria si usa il termine di simbiosi ad indicare un legame talmente stretto da rendere poco distinti i confini psichici identitari tra due persone. Nel normale sviluppo il bambino passa da una “simbiosi primaria” con la madre alla costruzione di una identità separata. Nei gemelli molto uniti questo percorso può essere più lento o parziale: in tal caso l’altro gemello diventa la figura di attaccamento centrale. Le loro identità restano intrecciate: scelte di vita parallele, decisioni difficili da prendere da soli, ansia di separazione. Il risultato non è necessariamente patologico: molti gemelli vivono tale condizione senza problemi. Diventa clinicamente rilevante quando la simbiosi è molto stretta e limita l’autonomia, sfociando in una dipendenza reciproca».
Quando la simbiosi raggiunge livelli patologici, può accadere che la vita dell’uno diventi davvero impensabile senza quella dell’altro fino a scelte estreme?
«Nelle condizioni di simbiosi estrema è inaccettabile la separazione, tanto da arrivare a progettare insieme la morte perché l’idea di restare soli è insostenibile. Sono dinamiche che si osservano più facilmente nei gemelli monozigoti, come le Kessler: due corpi quasi identici, cresciute in perfetto parallelismo, e spesso un mondo esterno che li percepisce, e li tratta, come un’unica unità. In psichiatria, anche in altri rapporti simbiotici (madre-figlio, coppie), possono manifestarsi condizioni rare di due persone che condividono lo stesso delirio (folie à deux o disturbo psicotico condiviso)».
Qual è la spiegazione neuroscientifica del legame speciale (e troppo stretto) che si instaura tra gemelli?
«Sul piano neuroscientifico, nei gemelli identici si stabilisce una sincronizzazione cerebrale precoce: stessi geni, stesse esperienze, stessi ritmi emotivi. È come se due cervelli seguano un unico ritmo di fondo. Le loro risposte allo stress, i meccanismi di attaccamento, il modo di rassicurarsi reciprocamente si modellano l’uno sull’altro fin dall’infanzia, in pratica tendono a rispecchiarsi, creando un senso molto profondo di unità: l’una specchio, copia dell’altra. Quando un legame così totale si spezza, non si perde soltanto una persona amata: si perde un pezzo della propria regolazione interna, con compromissione del proprio equilibrio psichico. È un po’ come perdere una parte di sé, non solo simbolicamente ma anche sul piano neurobiologico, una vera amputazione. In questo senso, un suicidio condiviso (“patto suicida”) può diventare l’estrema conclusione di una simbiosi patologica, l’ultimo tentativo di restare uniti quando la vita non permette più di farlo».
È possibile che l’esposizione ad eventi traumatici possa costituire un terreno fertile per questo tipo di attaccamento
«Sì, un terreno emotivo segnato da traumi, soprattutto infantili, può favorirlo. Quando un bambino vive un lutto precoce, cresce con figure genitoriali instabili o sperimenta abbandono e trascuratezza, può sviluppare un bisogno accentuato di aggrapparsi a qualcuno che gli garantisca sicurezza. Se a tutto questo si aggiunge una simbiosi già molto forte, come accade spesso tra gemelli, il rischio aumenta: l’altro diventa la base sicura, la presenza indispensabile per fronteggiare il mondo sentito come ostile. Le Kessler sono cresciute nella Germania dell’Est del dopoguerra, un contesto in cui molte famiglie portavano ferite profonde: perdite, traumi bellici, adulti segnati dalla miseria e dalla violenza. Il loro padre, pare, fosse alcolista e violento. In un ambiente così instabile, non è difficile immaginare che le due gemelle si siano aggrappate l’una all’altra con forza crescente. Per loro, la sicurezza non veniva tanto dagli adulti, quanto dal legame reciproco: una dipendenza affettiva nata come strategia di sopravvivenza e poi diventata, negli anni, la struttura portante della loro identità».
La depressione di una delle due gemelle può aver contribuito alla scelta estrema di ricorrere al suicidio assistito?
«Sì, in gemelli molto uniti, come le Kessler, la depressione di una può riverberarsi sull’altra: i loro stati emotivi sono strettamente sincronizzati. La depressione è uno dei principali fattori di rischio di suicidio. In individui che già hanno un legame simbiotico molto intenso, uno stato depressivo può amplificare i sentimenti di disperazione, l’incapacità di immaginare la vita senza l’altro o di vedere alternative, e quindi può contribuire a decisioni tragiche».
Qual è, invece, la sua posizione nel dibattito sul suicidio medicalmente assistito in pazienti con disturbi mentali?
«Ritengo che non sia una risposta adeguata. La ragione è semplice: la maggior parte dei disturbi mentali caratterizzati da idee di morte è trattabile. Inoltre, anche quando una persona si percepisce “senza via d’uscita”, spesso siamo di fronte a condizioni patologiche che alterano la capacità decisionale, quali depressioni gravi, traumi non elaborati, dinamiche di dipendenza affettiva. In tutti questi casi, la richiesta di morire è un sintomo, non una scelta libera. C’è un vizio di consenso. In psichiatria, inoltre, la nozione di resistenza al trattamento (requisito per accedere al suicidio medicalmente assistito) deve essere applicata con molta prudenza: significa che sono stati tentati, in modo corretto e prolungato, una serie di protocolli terapeutici validati. Nella pratica, questo avviene raramente. Per questo ritengo clinicamente rischioso accogliere una richiesta di suicidio assistito in presenza di disturbo mentale: è una decisione irrevocabile basata su una condizione che, nella grande maggioranza dei casi, può migliorare, sensibile a eventi, contesti, relazioni. Un momento di disperazione può sembrare definitivo, ma in genere non lo è. Legittimare il suicidio assistito in queste situazioni rischia di trattare come “incurabile” ciò che non lo è. Per questi motivi, da una prospettiva clinica ritengo che l’uso del suicidio assistito sia non solo opinabile, ma non appropriato. Il compito della psichiatria è offrire trattamento, protezione e possibilità, non sancire come definitiva una scelta che nasce, quasi sempre, da una condizione transitoria».
In definitiva, che lettura possiamo dare, sul piano psichiatrico e umano, del caso Kessler?
«La storia delle Kessler ci ricorda che i legami molto profondi possono essere al tempo stesso una forza straordinaria e una vulnerabilità. Nelle relazioni simbiotiche, quando la fusione diventa eccessiva o sfocia nella patologia, l’altro non è più semplicemente una persona amata: diventa parte del proprio equilibrio interno, quasi una componente strutturale della propria identità. Sul piano umano, la vicenda di Alice ed Ellen Kessler ci invita a guardare oltre l’immagine pubblica e perfetta: dietro ogni mito esiste una trama emotiva complessa, fatta di dipendenze, paure, traumi e bisogno di sicurezza. E ci ricorda una verità semplice ma essenziale: i legami più intensi hanno bisogno di un equilibrio tra vicinanza e autonomia. Perché l’amore può unire, ma è l’autonomia che protegge».
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