Il caso
Toscana, cresce la violenza sulle donne: una nuova vittima al giorno si rivolge ai centri antiviolenza
Nel 2024 oltre 10.000 donne hanno contattato per la prima volta un Cav. La responsabile della Casa della Donna di Pisa: «Non solo botte, ma ferite psicologiche, economiche e familiari. Serve tempo e una rete competente per ricominciare»
Non solo botte, ma anche violenza psicologica ed economica. Nei primi sei mesi di quest’anno (da gennaio a luglio), almeno una donna al giorno ha contattato per la prima volta uno dei 25 centri antiviolenza (Cav) della nostra regione.
Secondo il rapporto 2024 sulla violenza di genere in Toscana – redatto da Regione, Osservatorio sociale regionale e Anci (Associazione nazionale Comuni italiani) – nell’ultimo anno sono stati 20.666 i contatti totali (leggi: richieste d’aiuto), di cui 10.494 nuovi contatti e 7.475 chiamate che hanno avuto un seguito nel tempo.
Francesca Pidone è la responsabile del Centro antiviolenza dell’associazione “Casa della donna” di Pisa, uno dei punti di riferimento in Toscana (che fa parte della rete nazionale dei centri antiviolenza Dire) e con il più alto numero di accessi dopo quello di Firenze. Lei guarda in faccia tutti i giorni la sofferenza delle vittime e racconta che oggi sono in aumento gli sos lanciati dalle donne toscane per fuggire da chi avrebbe dovuto amarle e invece ha reso la loro vita un inferno e (provare così a) riprendere in mano i fili della loro vita. «Il compito dei centri antiviolenza è di aiutarle a riconcentrarsi su se stesse – racconta – perché l’uomo che fa violenza è molto ingombrante. Così ci sono donne che hanno difficoltà ad ascoltarsi e addirittura a capire. Dopo un primo contatto, l’altro obiettivo fondamentale è quello di valutare il rischio (per sé e i figli), preparando un piano di protezione ad hoc anche per le donne che non hanno bisogno della casa rifugio».
I numeri
E se è vero che sono in crescita i comportamenti violenti (fisici ma non solo) da parte degli uomini, ora c’è anche un altro dato che fa da contraltare: è in aumento il numero di donne maltrattate che chiedono aiuto. E Pidone snocciola i numeri: nel 2024, infatti, sono stati 529 i contatti soltanto con il centro della “Casa della donna” di Pisa con 137 percorsi “ereditati” dai precedenti anni e 392 primi contatti. E quest’anno, da gennaio a luglio, se ne contano già 186 attraverso gli sportelli presenti nei vari territori. «Offriamo un servizio di tutela legale ma ci sono anche donne che decidono di non denunciare: per questo è importante che ci sia una rete istituzionale, che deve avere però personale specializzato – evidenzia Pidone – . E poi garantiamo spazi di supporto psicoterapeutico: non sono donne malate, ma stanno vivendo un trauma, una situazione che cambia spesso da un momento all’altro senza elementi predittori».
Il profilo
Ma qual è l’identikit-tipo delle donne che chiedono aiuto? «Circa l’80 per cento sono italiane con un’età compresa tra i 30 e i 59 anni e la maggior parte hanno figli piccoli – spiega Pidone – . Hanno bisogno di rimanere in contatto con il Cav perché i percorsi sono collegati al ciclo della violenza che può essere go and stop oppure può derivare da una relazione che finisce, ma la violenza continua e si trasforma in altra tipologia. Inoltre, spesso le donne sono disorientate dalla complessità dei percorsi giudiziari dove un supporto è necessario, anche dopo le prime fasi di uscita dalla violenza».
Le case rifugio
Ma c’è anche chi vive una situazione di violenza particolarmente grave, magari in seguito alla separazione o alla denuncia del partner maltrattante. Ed ecco che restare lì, nella stessa casa, sotto lo stesso tetto, significherebbe rischiare la vita. Per lei e per i figli. «La nostra associazione ha una casa rifugio che si trova in una località segreta – evidenzia – . È un appartamento di semi autonomia, quindi non ci sono le operatrici H24, e può ospitare un massimo di otto persone, compresi i figli delle donne vittime di violenza, in cui possono stare al sicuro».
Le forme di violenza
E se quando si parla di violenza il primo pensiero va in modo quasi automatico a schiaffi, calci e pugni, Pidone spiega che in realtà «la prima forma di violenza che riscontriamo è quella psicologica. Che è invadente anche se i danni sono poco visibili, ma è molto estesa, lede l’autonomia e la libertà della donna – aggiunge la responsabile – . Sempre più spesso, poi, assistiamo a forme di violenza economica: si tratta di donne che, con una strategia, sono state fatte uscire dal mondo del lavoro. In quest’ottica il reddito di libertà è uno strumento frutto di una buona intenzione, ma i fondi sono molto scarsi e anzi, vorremmo che fossero molto rafforzati. Oggi la donna può riceverlo soltanto se c’è una certificazione del Cav che testimoni il suo percorso e anche una ulteriore, da parte del servizio sociale, relativa alle condizioni economiche della donna».
I figli delle vittime
Ma c’è anche un’altra sfaccettatura della violenza, altrettanto dolorosa: quella assistita, ovvero il maltrattamento dei figli. «Esiste un lavoro apposito anche per questo attraverso la definizione di visite protette con i bambini che provano sentimenti contrastanti, come la paura di rivedere il padre. Per loro facciamo supporti specifici, proprio come per le donne – conclude Pidone – . Non è mai semplice e immediato chiudere una relazione violenta. È importante dare tempo alle donne, lavorare con i loro ritmi. L’aggancio con il centro consente loro di trovare uno spazio per uscire molto più consapevoli dei propri diritti, iniziando a segnare spazi di autodeterminazione. Le donne hanno un grande potere: sono capaci di resistere. E di rinascere».