Heysel, il ricordo del fratello di una vittima toscana: lo stadio-pollaio e il misterioso cambio di settore
Bruno Balli, di Prato, aveva 50 anni ed presidente del club bianconero di Travalle
PRATO. Quella notte di 40 anni fa il pratese Riccardo Balli ce l’ha ancora davanti agli occhi. Suo fratello maggiore Bruno rimase ucciso dalla calca nel settore Z dello stadio, dove irruppe la carica mortale degli hooligans partiti dai settori vicini X e Y. Bruno Balli aveva 50 anni, era lì per godersi la finale, da tifoso della Juventus e presidente del club bianconero di Travalle. Nonostante il dolore e la rabbia, in tutti questi anni Riccardo non ha mai rinunciato a tenere vivo il ricordo della tragedia.
Signor Balli, che immagini le vengono in mente ripensando a quella sera?
«Io ero da un amico a Prato per guardare la partita alla tv. Quando vedemmo la confusione nel settore Z non mi preoccupai troppo perché mio fratello doveva essere nella curva N (sul lato opposto, riservata al tifo organizzato della Juve). E invece alle 2 di notte passate arrivò la telefonata dalla questura, che ci avvisava che Bruno era morto. Il giorno dopo andammo a Bruxelles con un velivolo dell’Aeronautica per il riconoscimento. Ancora oggi non sappiamo perché lo misero nel settore Z».
Poi siete riusciti a ricostruire gli ultimi suoi momenti?
«L’amico che era con lui ci ha detto che quando arrivò la calca, Bruno era a sedere e stava caricando la cinepresa. Praticamente non è riuscito a scappare in tempo e gli sono passati sopra. Come altri è morto per soffocamento, sull’autopsia c’era scritto così».
Che persona era Bruno?
«Una brava persona. Era il primo di tre fratelli: lui del ’35, Mauro del ’41 e per ultimo io del ‘46. Abbiamo anche lavorato insieme, a fine anni Settanta prendemmo in gestione il bar allo stadio di Prato. Poi Bruno diventò un commerciante. Siamo sempre stati appassionati di sport e di calcio, anche se lui da ragazzo era un ginnasta».
Cos’è che le fa più rabbia a distanza di così tanti anni?
«Credo che non sia stata raccontata tutta la verità e che la prima carenza sia stata della Uefa. Non si fa una finale come quella in uno stadio così fatiscente, l’Heysel era un pollaio. Se fosse stato come lo hanno rifatto dopo (oggi si chiama stadio Re Baldovino, ndr) e dove siamo stati invitati a vedere l’amichevole tra Belgio e Italia nel 2015, magari non sarebbe successo quello che è successo. L’altra cosa brutta è stato poi il fatto che si sia giocata la partita: avevano paura che potesse andare ancora peggio».
Secondo lei è stata fatta giustizia?
«Non fino in fondo. Sono stato due volte a Bruxelles in tribunale, ricordo che arrivarono gli hooligans autori di quel macello e alcuni di loro ridevano, come se non fosse successo niente».
Perché è importante ricordare la strage?
«Per le nuove generazioni. È bene che i ragazzi facciano sport e lo seguano in modo sano, nella correttezza e senza violenza. I genitori devono dare l’esempio».