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L’anniversario

Heysel, 40 anni fa la partita della morte: quel pallone che rotolava fra 39 cadaveri e una maledizione

di Cristiano Marcacci

	La calca mortale, i giocatori della Juve con la coppa
La calca mortale, i giocatori della Juve con la coppa

La pagina più buia e drammatica del calcio internazionale, in cui un evento di sport e di festa si trasformò in pochi secondi in una carneficina

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Ai tifosi juventini più giovani bisognerebbe che qualcuno spiegasse perché, per loro, la coppa dalle grandi orecchie (prima “dei Campioni” oggi “Champions League”) è stregata. Se escludiamo l’edizione datata 1996, anno in cui la squadra dell’allora mister Marcello Lippi la conquistò dopo una finale soffertissima risolta solo ai calci di rigore contro gli olandesi dell’Ajax, i bianconeri hanno dovuto sopportare una lunga sfilza di delusioni, comprese ben cinque finalissime perse, nel 1997 contro il Borussia Dortmund, nel 1998 contro il Real Madrid, nel 2003 contro il Milan ai rigori, nel 2015 contro il Barcellona e nel 2017 di nuovo contro il Real Madrid.

Perché una tale maledizione? L’origine affonda le radici nei decenni della storia, in un mix tra karma e calcio che può rappresentare quasi un ergastolo sportivo. Esattamente quarant’anni fa - era il 29 maggio 1985 - la Juventus, infatti, vinse la partita “della morte”, la partita che non si sarebbe dovuta giocare. E che invece fu giocata ugualmente, facendo rotolare il pallone dell’indecenza, del business e dello spettacolo ad ogni costo fra 39 cadaveri ancora caldi e insanguinati.

Fu la notte dell’Heysel, la pagina più buia e drammatica del calcio internazionale, in cui un evento di sport e di festa si trasformò in pochi secondi in una carneficina, scatenata da un’orda di tifosi ubriachi di birra agevolata da degli inetti responsabili dell’ordine pubblico convinti del fatto che quel branco di animali inglesi potesse starsene tranquillamente a convivere con i supporter avversari nel medesimo settore dello stadio, quello contrassegnato dalla famigerata lettera “Z”. «A un certo punto – racconta Italo Cucci – decisi di scendere dalla tribuna stampa e arrivai giù a bordo campo. Vidi un portoncino verde, come una casa di campagna che dà sull'orto. Aprii: c'era una montagna di cadaveri, buttati lì come per far pulizia. Una testa giovane in cima al mucchio, girata verso di me, mi guardava con gli occhi spalancati».

Sotto choc, Cucci tornò in sala stampa e riferì ai colleghi, che però non lo presero molto sul serio. Enrico Ameri, con le cuffie, gli chiese: «Cos'hai visto?»; «Una montagna di morti», rispose Cucci. Ameri mise la mano sul microfono, incazzato: «Non si può dire!». Poi riprese con voce normale: «Si attendono notizie... Non fate caso agli allarmi fantasiosi. Vi diremo noi». Molti si ricorderanno dell’appello di quel gran telecronista e gran signore che era Bruno Pizzul: «Non si deve giocare, non si deve giocare», ripeteva.

A proposito di grandi, c’era anche Gianni Brera. Scoppiò a piangere: «Ho fatto questo mestiere per raccontare i vivi, non i morti», disse con le mani tra i capelli. Ma si giocò. E la Juve, vittoriosa con Platini su calcio di rigore, esultò alzando quella Coppa che l’allora presidente Boniperti ritirò e non riconsegnò, come se non fosse successo niente. «Non giocare sarebbe stata la cosa peggiore da fare – è il parere dell’ex centrocampista bianconero Massimo Bonini – perché giocando quella partita abbiamo dato modo alle forze dell'ordine di arrivare allo stadio e organizzarsi per portare via i tifosi del Liverpool. Per fortuna abbiamo giocato». «All'epoca vivevamo in un altro mondo, senza Internet, senza social media, perché altrimenti – ammette invece Zbignew Boniek – quella partita non si sarebbe mai giocata, perché di fronte a tutto quello che è successo era assurdo giocarla. Hanno deciso di giocarla per calmare la gente, per far arrivare i soldati, per garantire la sicurezza a tutti. Ci hanno costretto a giocare. Che fosse successo qualcosa di molto grave noi l'avevamo capito perché lo spogliatoio era uno dei posti da dove si portavano via feriti e morti».

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