Gianluca Ceccanei, il chirurgo di Livorno: «Con la medicina è stato amore a prima vista. Lasciare? Solo per pilotare aerei...»
Romano di nascita, ma ormai labronico d’adozione: «I nonni sono stati importantissimi: di loro ciò che più mi è rimasto dentro è la certezza di essere stato amato»
LIVORNO. Si considera molto fortunato, perché il suo è un lavoro che ama e, dice, se proprio fosse costretto a cambiare, vorrebbe diventare «pilota d’aereo». Romano di nascita ma livornese di adozione, carattere ottimista e grande empatia, il dottor Gianluca Ceccanei, 45 anni, chirurgo vascolare presso l’Ospedale di Livorno, racconta che per lui la medicina è stata «amore a prima vista». Una passione che cerca di portare avanti con grande consapevolezza, convinto che quella di fare il medico, soprattutto in certi campi, non sia una scelta ambiziosa, ma un impegno importante da cui dipendono molte vite.
La sua, di vita, che radici ha?
«Sono nato e cresciuto a Roma e mi sono trasferito a Livorno undici anni fa. Mio padre è romano; mia madre è nata a Montevideo e poi, da piccola, si è trasferita a Roma con la famiglia».
Ha fratelli o sorelle?
«Sono figlio unico di genitori molto amorevoli».
Qual è stato il loro lavoro?
«Mio padre era impiegato e la mamma dirigente della società American Express».
Nei suoi “dintorni” dunque nessun medico.
«Nessuno. Sono stato il primo ad aver intrapreso, senza influenze di alcun tipo, questa strada. Il primo e l’unico».
È sposato? Ha figli?
«Non sono sposato e non ho figli. Ho però una compagna con la quale condivido la passione della vita e per la vita stessa. Ah, dimenticavo: con noi vive, coccolatissima, una cagnolina, la nostra “cucciola” bracchetta tedesca di nome Nutella».
Da bambino giocava al Piccolo medico?
«Mi piaceva l’Allegro Chirurgo, ma ho sempre preferito giochi di squadra, se possibile all’aria aperta».
I nonni sono stati importanti per la sua formazione?
«Molto. Soprattutto i maschi, con i quali passavo più tempo. Ricordo che il mio nonno materno mi portava a vedere i treni alla stazione e un giorno mi fece salire su una locomotiva, ferma su un binario che doveva essere morto. Ma era solo di scambio e a un certo punto la locomotiva cominciò a muoversi. Lui raccontava a tutti questa storia, spiegando, come mi avesse eroicamente strappato alla corsa impazzita del mezzo. In realtà il percorso che feci, peraltro divertendomi un sacco, fu brevissimo».
Quello paterno invece com’era?
«Di poche parole, reduce dalla campagna di Russia dopo una lunga prigionia. Ricordo che i suoi occhi parlavano per lui e che aveva dei polpacci più duri di quelli di Coppi. Era un grande amante della bicicletta. A parte questi particolari, dei nonni ciò che più mi è rimasto dentro è la certezza di essere stato amato».
Perché ha scelto chirurgia vascolare?
«Ero interno in un reparto di chirurgia generale e aiuto di un professore che si occupava prevalentemente di chirurgia vascolare. Il mio è stato un colpo di fulmine per una specialità molto tecnica, che richiede una pianificazione chirurgica fine, nonché grande rapidità di esecuzione: emorragia e ischemia sono complicanze che non ti lasciano molto tempo di risoluzione».
Negli anni poi questa chirurgia è migliorata.
«Molto. Con incredibili innovazioni tecnologiche che hanno permesso trattamenti a pazienti prima inoperabili e ridotto notevolmente il rischio. C’è stato bisogno di un grande impegno, ma posso dire con fierezza che, per esempio, quello di Livorno, dove ho la fortuna di lavorare, è un centro che fornisce prestazioni all’avanguardia».
Con la sua équipe recentemente ha salvato una donna di 83 anni che stava per avere la rottura di un aneurisma. In quei casi vale la prontezza, la fortuna, l’intuizione? E come ci si sente quando, di fronte a una situazione altamente a rischio, si può gridare “Ce l’abbiamo fatta!”.
«Nel nostro mestiere conta un po’ tutto e la preparazione è fondamentale, ma lo sono anche l’esperienza, la fortuna e la Provvidenza. La chirurgia in generale non dà garanzie di successo neanche quando il gesto eseguito è perfetto. Ci sono tante variabili in gioco e, la più complessa, è proprio l’essere umano».
Qual è stato il suo giorno più bello come giovane aspirante medico?
«Probabilmente quello della proclamazione della laurea, che ha visto ripagati tutti i sacrifici fatti da me e dalla mia famiglia e mi ha permesso di muovere i primi passi nel mondo tanto atteso della medicina».
E quello più brutto?
«Non ricordo un giorno brutto in particolare, ma tanti momenti duri. Nel nostro lavoro abbiamo sempre a che fare con la sofferenza, con il dolore, non solo fisico, e con la morte. Ma questi sono anche i momenti che ci permettono di forgiarci, fornendo un aiuto più consistente nel tempo».
Il primo ricordo se pensa a lei bambino?
«Sembrerà strano, ma più passa il tempo e più me ne vengono in mente tanti. Primo fra tutti il ricordo dei miei nonni, che, come ho spiegato, erano davvero speciali».
Che cosa fa quando non lavora?
«Suono la chitarra, ascolto musica. Nelle poche ferie che abbiamo io e la mia compagna siamo sempre iperattivi: snowboard o immersioni, paracadute, viaggi in motocicletta. Difficilmente stiamo fermi a prendere il sole... Anche se forse adesso, in realtà, lo facciamo un po’ di più».
Se dovesse parlare di lei a una persona che non la conosce cosa direbbe?
«Che sono caparbio, pignolo, sincero e.… anche un po’ fortunato. Sembrano solo pregi, ma chiedetelo a chi mi sta accanto».
Caratterino deciso, sembrerebbe. Ma ai suoi pazienti si pone dall’alto del suo potere medico o punta più sul livello umano?
«Senza alcun dubbio scelgo la seconda opzione, che ha sempre dato spazio al mio modo di agire, non solo nel lavoro: preferisco connettermi con il prossimo. Nella professione medica questa è l’unica cosa che possiamo garantire a chi ci sta di fronte: non siamo infallibili, ma possiamo far sentire al paziente la nostra vicinanza. Per quanto ipertecnologici, infatti, non dobbiamo mai scordare che il paziente è prima di tutto una persona e non solamente una malattia da combattere. Il rapporto umano, la fiducia tra medico e paziente, la comprensione dei bisogni, delle frustrazioni, del dolore del malato deve essere il punto centrale per una corretta terapia. Perché, se il risultato, anche con il miglior trattamento, non è purtroppo mai garantito, la gentilezza, la cortesia e l’umanità devono esserlo. Ritengo indispensabile il rapporto di squadra e, per quanto mi riguarda, sono fiero dei miei collaboratori».
Se dovesse cambiare mestiere cosa sceglierebbe?
«Ci ho pensato più volte, soprattutto in alcuni momenti difficili della mia vita e ci penso tuttora, perché nel nostro Paese la medicina te la fanno praticare con moltissima fatica... Poi però succede come quando hai una scarpa rovinata, ma che ti calza così bene. Non la butteresti via mai. Ho la sensazione che pregi e difetti in me siano stati mescolati proprio per fare il medico. Non so se mi spiego. Però, se proprio dovessi scegliere di cambiare, fantasticando come un bambino, be’, vorrei essere un pilota di aerei».