Rita Bianchieri: «Il gap bancario? Se non lavori non serve il conto corrente»
La sociologa: pochi servizi, part time obbligati, paghe basse
Il gap bancario - quel venti per cento di donne che non ha neppure un conto corrente a proprio nome - va letto attraverso il tasso di occupazione. Rita Bianchieri, sociologa dell’Università di Pisa, è un’esperta di gender gap.
Professoressa Bianchieri, come legge questo dato?
«Il tasso di occupazione femminile, secondo l’ultimo report Inps, è appena sopra il 50% e varia molto tra nord e sud. I dati vanno declinati in base alle disuguaglianze geografiche: laddove c’è un basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro c’è minor autonomia economica. È utile anche sapere quanti sono i conti cointestati, che possono avere due significati: uno di condivisione, perché dalla riforma del diritto di famiglia, del 1975, tutto ciò che viene acquistato durante il matrimonio è condiviso dalla coppia. L’altro aspetto può essere la mancata indipendenza, legata alla precarietà del lavoro, come nel bellissimo film della Cortellesi “C’è ancora domani”, molte donne fanno tanti lavoretti, spesso a nero».
È ancora molto forte il divario tra regioni in Italia?
«Sì, purtroppo. Tutte le statistiche indicano una disuguaglianza geografica, e questo incide sulla indipendenza economica e finanziaria perché se uno lavora deve avere un conto corrente per accreditare lo stipendio. C’è poi un problema di scarsa conoscenza della materia, sono poche ad esempio le donne che investono in fondi».
Quindi ancora un fatto culturale e di educazione?
«Si parte dalla scuola. Dai test Invalsi, che continuano a dare migliori le performance delle donne nella lingua ma non nella matematica. E lo vediamo all’università, dove le iscrizioni femminili a matematica e nelle discipline Stem sono molto ridotte».
Secondo lei da cosa dipende?
«Ho scritto un libro sul “blocco” delle donne nelle iscrizioni a ingegneria: dipende da come viene insegnata la matematica, dagli insegnanti che influenzano le scelte e da un modello culturale in cui le donne vengono ancora avviate alle facoltà umanistiche che hanno sbocchi di lavoro in cui c’è maggiore femminilizzazione e stipendi inferiori. Dipende dal fatto che molti ancora associano l’idea del reddito della donna al reddito accessorio».
Sintetizzando, le donne sono più brave a scuola, ma scelgono indirizzi e lavori meno redditizi e fanno meno carriera.
«C’è un problema importante che riguarda la mancanza dei servizi, strettamente collegato al basso tasso di fecondità nel nostro Paese, dove da 30 anni ormai siamo al di sotto del tasso di sostituzione. Pensiamo a nidi e scuole d’infanzia: la media italiana è del 28% a fronte dell’obiettivo europeo del 45%, ma al sud l’offerta è del 16,2% contro il 34% del centro nord. Nel resto d’Europa si va dal 50% di Francia e Spagna, a oltre il 70% della Scandinavia».
Quindi non c’è sostegno familiare, ma questo penalizza principalmente le donne.
«Sì, perché la condivisione della cura familiare è asimmetrica, resiste lo stereotipo dell’azienda che preferisce assumere uomini perché la nascita di un figlio ricade sull’organizzazione del lavoro. Non c’è parità nel congedo familiare: solo 10 giorno per l’uomo, c’è una proposta genitoriale di estendere il congedo maschile ma parte della politica la ostacola».
E arriviamo al gap occupazionale.
«Il tasso medio di occupazione nell’età 15 - 64 anni è del 52,5% per le donne, oltre il 70% per gli uomini. Nei lavori a tempo indeterminato troviamo il 36,9% di donne, contro il 63,1% di maschi. Poi c’è il part time involontario, cioè non scelto: le donne sono le prime “avviate” al part time dalle aziende. Hanno maggior istruzione, ma sono sottoccupate per il titolo di studio».
Stipendio più basso, pensioni più basse.
«Esatto. L’obiezione è: i contratti sono uguali per tutti. Vero, ma le donne hanno meno incarichi retribuiti, fanno meno straordinari, hanno minor mobilità (all’estero ci vanno di più gli uomini) perché è scarso il sostegno alla genitorialità».
Un quadro deprimente.
«Il cambiamento è lentissimo: c’è un fattore culturale prevalente, le donne hanno ancora una funzione materna e famigliare. Anche se le norme ci sono, rimane sulla carta l’applicazione. Un altro stereotipo è la salute delle donne. E adesso torneremo indietro. Nell’associazionismo e nella politica la presenza femminile è diminuita. Abbiamo una premier ma non abbiamo riscontro nella partecipazione pubblica e politica».
Si può invertire questa tendenza?
«Ripartendo dalla scuola, dall’educazione a rispetto e reciprocità, ma non ci si investe abbastanza. Pensi alla polemica sul patriarcato: come si fa a dire che non esiste? Qualche segnale c’è ma è molto lento. E poi ci sono le statistiche».
Ci spieghi.
«Con le statistiche di genere riusciamo a leggere i dati e commentarli. Da una decina di anni i dati sono divisi per genere, ogni anno esce il rapporto Bes. Il primo rapporto Iref sull’associazionismo di genere è del 2008. Le statistiche aiutano a cambiare perché i dati sono immediati».