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Verso il 25 novembre

Violenza sulle donne, la psichiatra Dell'Osso: «Gli abusi fanno modificare il dna, a rischio la salute mentale dei figli»

di Cristiano Marcacci

	La dottoressa Liliana Dell'Osso
La dottoressa Liliana Dell'Osso

Intervista alla presidente della Società Italiana di Psichiatria e direttrice della Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa: «Il “femminicidio” è un termine che consente di non banalizzare un crimine scatenato da una grave psicopatia»

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Mancano poche ore al 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Non possiamo essere d’accordo con chi sostiene che si tratta di un maxi festival della retorica. I numeri ci dicono altro. Ci indicano, purtroppo, un’emergenza dai contorni inquietanti che occorre fronteggiare con una severissima presa di coscienza ben distante dai soliti slogan e appelli. Molestie, violenze sessuali o fisiche da parte di estranei, ma più frequentemente da parte del partner o anche di membri della famiglia di origine, popolano quotidianamente le pagine dei giornali e le home dei siti d’informazione. A Liliana Dell’Osso, presidente della Società Italiana di Psichiatria e direttrice della Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa, chiediamo di guidarci lungo un sentiero che si allontani il più possibile dalla retorica.

Professoressa Dell’Osso, a quale cortocircuito culturale ci troviamo di fronte analizzando questo fenomeno?

«Sul rapporto uomo-donna persiste, a quanto pare, proprio un ritardo culturale, legato ad una visione arcaica, all’idea di un potere esercitato dall’uno sull’altra, allo scopo di assoggettarla fisicamente o psicologicamente, che talora degenera in comportamenti violenti, fino all'eliminazione fisica».

La parola “femminicidio” ricorre quasi quotidianamente sui mezzi d’informazione. Pensa che si tratti di un termine abusato?

«Il neologismo “femminicidio”, esteticamente brutto, criticato anche per ragioni culturali ma utile, individua una categoria criminologica caratterizzata dal delitto contro una donna in quanto donna: il genere della vittima come movente. Consente, inoltre, di non banalizzare, riducendolo ad invenzione mediatica, un crimine, il cui verificarsi richiede il concorso quantomeno di una grave psicopatia. Un termine certamente abusato, che limita al genere un fenomeno più ampio e complesso che riguarda la violenza che impronta molti rapporti asimmetrici tra soggetti detentori di un qualche potere e soggetti più deboli: donne, ma anche bambini, anziani, pazienti psichiatrici, minoranze etniche e sessuali (Lgbtqia+). Un problema politico, oltre che sociale, giuridico e perfino economico, perché un Paese democratico dove ci siano pari opportunità tra i cittadini raggiunge anche maggiore ricchezza».

L’uomo, inteso come genere maschile, si sta dibattendo in un’esiziale debolezza, mentre la donna diventa sempre più forte e determinata. Questo ha a che fare con la violenza di genere?

«Le modifiche del comportamento di genere vanno osservate in relazione al tentativo di adattarsi a un ambiente. In realtà noi tendiamo a operare semplificazioni, guardando al passato, ma i ruoli sociali vanno incontro a continue forme di assestamento e modifiche, cambiando di pari passo con il contesto di riferimento. È difficile, quindi, farne una questione ontologica o associarle solo a questo specifico momento storico. Certo è che la violenza di genere, non associata con la forza ma con l’intento di condurre una sopraffazione, non sta diminuendo come avremmo sperato. E, d’altro canto, se la donna è più forte, forse non lo è ancora abbastanza!».

Recentemente è divampata la polemica politica sul patriarcato come caratteristica strutturale del mondo occidentale e causa di violenza di genere. Qual è il suo pensiero in merito?

«Siamo certamente di fronte a un fenomeno che affonda le sue radici nel cuore della civiltà occidentale, che esalta miti violenti, da Zeus stupratore seriale e da Apollo stalker ante litteram della cultura greca alla leggenda delle origini basata su uno stupro etnico (il ratto delle Sabine) della cultura latina, senza alcuna preoccupazione per le vittime a cui va oggi invece l’attenzione e il supporto. Ma non ci si può limitare solo a motivazioni culturali o sociali».

Quanto pesano i fattori biologici? Cosa emerge dalla ricerca neuroscientifica?

«Nelle ultime decadi sono stati individuati numerosi fattori biologici alla base delle differenze di genere nell'aggressività. Anche all’Università di Pisa ce ne siamo occupati. Nel 2010 una mia allieva, che lavorava negli Usa al National Institute of Health, ha pubblicato su Nature (la rivista scientifica più importante al mondo) uno studio su un campione di carcerati di origine finlandese che avevano commesso stupri o omicidi sotto l’effetto dell’alcol. Nel dna di tali soggetti ha rinvenuto una piccola variazione di un gene (Htr2b) che produce una proteina che funziona da recettore cerebrale della serotonina (che regola numerose funzioni e comportamenti, fra cui anche l’impulsività). Questa variante genetica era presente anche nelle femmine, ma solo i portatori maschi avevano commesso crimini e solo in stato di ebbrezza. Quindi una multi causalità del comportamento criminale: alterazione genetica più assetto ormonale (testosterone) più fattori tossici (alcol) erano tutti necessari per l’esplosione della violenza».

Quali sono le nuove frontiere della ricerca genetica nel campo della violenza di genere?

«Negli ultimi anni la ricerca si sta concentrando sulla relazione tra esperienze traumatiche e assetto genetico. Studi di epigenetica dimostrano che il genoma umano può subire modifiche (attraverso processi di metilazione del dna), stabili nel tempo, che si esprimono anche a distanza di anni, con problemi di salute nelle vittime di abusi fisici, sessuali ed emotivi da parte del partner. Non solo, tali modifiche genetiche possono essere trasmesse ai figli, i quali peraltro, saranno verosimilmente esposti anche a violenza assistita durante lo sviluppo, con forte disagio emotivo e psicologico, se non disturbi stress-correlati. In questa prospettiva, l’esperienza traumatica diventa intergenerazionale, minando la salute psichica anche nei figli».


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