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L'indagine

Lavoro, il dato allarmante: un diplomato toscano su quattro non ha competenze

di Francesca Ferri
Lavoro, il dato allarmante: un diplomato toscano su quattro non ha competenze

I risultati della ricerca commissionata dalla Regione sul divario scuola-imprese. Gambardella: «Il mercato cambia a una velocità che non viene ancora valutata»

06 gennaio 2024
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«I ragazzi sono molto meno preparati al mercato del lavoro di qualche anno fa. Sono disorientati, non sanno cosa vogliono fare davvero e non conoscono mansioni e contesti lavorativi». Quello che li caratterizza è una «scarsa competenza tecnica anche se provengono da studi specifici in materia. Ad esempio, un diplomato in ragioneria non sa registrare una fattura».

La voce degli imprenditori toscani racconta una verità difficile da credere, eppure comune in molti settori: le aziende non riescono a trovare personale perché la preparazione dei giovani, freschi di diploma o di laurea, spesso non è all’altezza dell’incarico che li aspetta una volta finiti gli studi.

In gergo si chiama skill mismatch e indica il divario (mismatch) tra le competenze (skills) ricercate dalle aziende e quelle disponibili. In altre parole, quello che i ragazzi sanno fare, avendolo appreso dalla scuola.

In Italia – rileva l’Istat – sono oltre 7,7 milioni i giovani Neet (Not in education, employment or training) che cioè non lavorano, non studiano, non cercano lavoro, tra i 15 e i 34 anni, di cui quasi 4,3 milioni hanno tra i 15 e i 24 anni (dato aggiornato a maggio 2023).

Prima indiziata è la scuola. Ma non solo.

«Manca soprattutto il dialogo tra aziende, istituzioni e candidati», spiega Stefano Gambardella, client director di Kilpatrick Executive Search – azienda italiana che dagli anni Novanta si occupa di ricerca diretta e selezione del personale e che è oggi una «multinazionale tascabile di cacciatori di teste» con sei hub di proprietà nel mondo – e vicepresidente regionale per la Toscana dell’Aidp (Associazione italiana per la direzione del personale), che in Italia conta oltre 4mila soci e per il Gruppo Toscana 160.

Proprio a Kilpatrick la Regione Toscana ha commissionato nel 2022 uno studio conoscitivo per comprendere le cause del divario e per porre le basi per un dialogo con le istituzioni e il territorio, presentato lo scorso anno. Un punto di partenza per cercare di correggere la rotta, visto che il mismatch in Toscana lascia indietro il 13,8% della popolazione tra 15 e 29 anni (dato del 2022, fonte Istat-Regione Toscana).

Lo studio si chiama “Superare lo skill mismatch e valorizzare le competenze per essere più attrattivi” ed è stato fatto in collaborazione con un team dedicato di Aidp Toscana ed il gruppo di ricerca Icohrs attraverso il coordinamento scientifico di Vincenzo Cavaliere, professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università degli studi di Firenze. Condotto tra giugno e luglio 2022, ha coinvolto 120 aziende toscane tramite un questionario on line.

«La ricerca ha coinvolto direttori e responsabili del personale e anche imprenditori, manager con delega alle risorse umane – spiega Gambardella – concentrandosi su tre temi che riguardano i candidati a futuri dipendenti, sia neoassunti che figure più esperte: il divario riferito alle competenze di base, il divario riferito alle competenze legate a specifiche occupazioni lavorative, ad esempio tecniche digitali e della tecnologia dell’informazione, e il qualification mismatch, la differenza tra qualificazione necessaria per svolgere un determinato lavoro e qualificazione posseduta e certificata».

Il risultato? «È emerso che al 26% dei neoassunti toscani manca le competenze tecniche, al 15% l’efficacia personale, cioè come una persona si muove nelle relazioni, la parte empatica, emotiva, l’intelligenza sociale e come ci integra nell’organizzazione. Infine, al 15% manca la parte linguistica». Insomma, non sanno l’inglese.

Gli ambiti più in sofferenza nel trovare personale (il 36% degli imprenditori intervistati) sono la catena di fornitura, manutenzione e automazione e anche lo sviluppo software e sistemi informativi (altro 36%). Ma non tutta è responsabilità della scuola.

«C’è anche un bassissimo livello di interazione tra scuole superiori e università nei confronti delle imprese», spiega Gambardella. «E poi bisogna considerare anche la velocità di cambiamento del mercato del lavoro – prosegue Gambardella – che non è stata ancora interiorizzata».

Il mercato del lavoro, spiega l’esperto, «è nel mezzo di una grande rivoluzione iniziata durante la pandemia. Oggi il candidato ha un ruolo più forte che in passato. Non è tanto interessato al “cosa, come, quando”, ma soprattutto al “perché”. Chiede: quale è la mission dell’azienda? Come cresco? Qual è il mio percorso? Dove andiamo insieme? Quali sono i benefit?». Domande nuove e in paradossale contrasto con la scarsità di competenze. Ma tant’è.

«Oggi il candidato si siede e vola molto alto su temi valoriali – spiega ancora Gambardella – . Inoltre una delle prime domande è: “Come siete organizzati? Da dove lavoro?”. Ma per molte aziende lo smartworking è ancora un tabù».

Molti imprenditori non sono preparati a rispondere. E si irrigidiscono. «A volte i manager sono incapaci di svolgere il ruolo di comando e controllo senza il controllo visivo, che ottengono solo facendo andare le persone sul luogo di lavoro. In altre parole, c’è un tema di esercizio dello stile di leadership e di come (dove) creare la cultura aziendale».

E già in sede di colloquio questa fragilità è palese: «Spesso sono poco efficaci con i candidati, e li devi supportare», spiega Gambardella.

Infine, incide quello che Gambardella definisce il «vuoto istituzionale», la lentezza delle istituzioni pubbliche a rispondere a queste domande.

E, dunque, come si interviene? «La ricetta più efficace – spiega Gambardella – è incentivare il dialogo tra privato e pubblico, che metta sul tavolo queste questioni e velocizzi i tempi decisionali, dovremmo avvicinare il “modo di fare impresa” al sistema istituzionale educativo-formativo. Inoltre, la mappatura delle competenze dei propri collaboratori adulti consentirebbe alle aziende di colmare il divario nelle conoscenze dell’area tecnologica e comportamentale».

«In definitiva – conclude Gambardella – serve maggior consapevolezza: le istituzioni devono sapere cosa serve, le aziende devono avviare percorsi per managerializzarsi a più livelli, vale a dire inserire figure manageriali nello staff, e investire nell’area risorse umane dotandosi anche di figure professionali dedicate».
 

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