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Violenza di genere

Femminicidi e stupri, la psicologa: «Il problema? Non si risolve con il carcere ai bambini»

di Ilaria Bonuccelli

	Alessandra Pauncz, psicologa, presidente e socia fondatrice Cam
Alessandra Pauncz, psicologa, presidente e socia fondatrice Cam

Parla Alessandra Pauncz dei Centri per uomini maltrattanti: «Iniziamo a impedire l’accesso gratuito ai minori al porno in rete: a 12 anni non si ha una carta di credito»

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Punire i ragazzini sotto i 14 anni non è la soluzione. Non per contrastare la violenza di genere, sperimentata dal 14% delle donne in Italia. «Una donna e mezzo ogni 10», sintetizza Alessandra Pauncz. Lei è psicologa e presidente e socia fondatrice Cam, il primo Centro in Italia di ascolto per uomini maltrattanti (aperto a Firenze). In questi due mesi, Pauncz – che è anche presidente della Rete nazionale di 32 centri per il recupero di uomini maltrattanti – ha registrato l’aumento di stupri di gruppo, soprattutto fra giovani e giovanissimi. E la stringa ininterrotta di femminicidi.


Dottoressa Pauncz, non sembra stupita da questi dati.

«In Italia muoiono in media 130 donne all’anno – una donna ogni tre giorni – e questo dato continua a essere costante. Questa è solo la punta dell’iceberg perché Istat ci dice che in Italia il 14% delle donne ha subito violenza dal partner o dall’ex. Quindi vuol dire una donna e mezzo ogni dieci. Questo significa che ogni giorno siamo in contatto con 2,4,6,8 amiche, cugine, colleghe o conoscenti che vivono una qualche forma di violenza. Ma vuol dire anche che 2,4,6,8 dei nostri amici, conoscenti, colleghi sono gli uomini che agiscono queste violenze».

Il violento della porta accanto.

«Credo che un primo passo da fare sia cercare di evitare la “mostrificazione” della punta dell’iceberg e degli episodi più gravi: quando succedono episodi gravissimi è difficile fare un ragionamento che ci ponga in continuità con quella violenza estrema. Invece noi abbiamo una generazione di giovani uomini e giovani donne la cui educazione affettiva e sessuale è avvenuta in maniera drammatica».

Cosa intende per approccio drammatico?

«Con un accesso al porno a 9 anni. Questa è la realtà che dobbiamo affrontare. E la dobbiamo affrontare in chiave propositiva, preventiva, con un approccio culturale e sociale. Non pensando di punire i ragazzini che hanno meno di 14 anni».

Quali episodi di violenza, fra i più recenti (o noti) metterebbe in continuità?

«I casi del degrado di Caivano, dello stupro di gruppo di Palermo, ma anche il caso del figlio di Grillo, del figlio di La Russa (accusato di stupro), o quello di Terrazza Paradiso a Milano. Hanno per protagonisti uomini giovani e meno giovani che non vivono situazioni di disagio sociale (a parte Caivano). Eppure non hanno l’educazione al consenso, al rispetto minimo della donna, della cultura delle relazioni.

Senta dottoressa, la violenza agita da uno stupratore e da un femminicida è mossa dagli stessi meccanismi? Affonda negli stessi stereotipi?

«In parte sì, in parte no. È condivisa una visione “oggettificata” delle donne, una visione negativa, dispregiativa, l’idea di valere più della donna. In parte, però, ci sono diversità. La violenza domestica (che può sfociare nel femminicidio) avviene nelle relazioni di intimità: spesso parliamo di persone che hanno una famiglia o figli insieme; esiste un piano relazionale. Questo non sempre è vero nei casi di stupro. O meglio: magari la vittima conosce lo stupratore, ma non ha una relazione stabile. Infatti il 70% le violenze sessuali avviene a opera di conoscenti, amici, parenti. Inoltre lo stupro spesso causa una reazione di congelamento (freezing) nella vittima che fa parte dei meccanismi difensivi, di sopravvivenza . L’assenza di resistenza, però, viene interpretato come disponibilità, anche in tribunale. E alla gogna pubblica».

Negli ultimi anni, lo stupro è associato al video da diffondere via whatsApp o via social. Ma il video è il nuovo trofeo della violenza?

«Siamo di fronte a un comportamento al quale concorrono almeno tre fenomeni: 1) la vita è vissuta ed esiste in quanto rappresentata sui social. Se posso mostrare quello che faccio allora è accaduto; 2) il porno: assuefazione alle immagini sessualmente violente e, quindi, anche la de-sensibilizzazione alla sofferenza delle persone; 3) l’abitudine diversa che hanno i ragazzi a scambiarsi video o foto (in modo consensuale) quando vivono un rapporto di intimità. Ma a volte, la convergenza di queste tre elementi può dare anche risultati non sempre positivi».

Lo ha sperimentato, al di là degli episodi di stupri con video da Palermo a Caivano di cui abbiamo parlato in questi giorni?

«Noi abbiamo programmi per minorenni autori di reato: la maggior parte di loro è stata condannata per revenge porn (diffusione non autorizzata di immagini a tema sessuale); scambio di materiale pedopornografico (perché sono minori, anche se consensuali). A volte si mescola una dose di immaturità nello scambio di foto o video a contenuto sessuale. La capacità di valutare gli effetti delle proprie azioni, il controllo dei propri impulsi non è lo stesso che negli adulti».

Al riguardo lei parla di un “incontro brutale” a 9 anni con la sessualità attraverso la pornografia. Ma l’accesso a queste piattaforme non dovrebbe essere vietata ai minori?

«Andare a toccare un’industria multimiliardaria non è facile. Ma il problema è che oggi c’è una sovrabbondanza di materiale pornografico violento gratuito. Con tre clic si può arrivare a materiali disturbanti: c’è un processo di assuefazione a qualunque video e perciò si va alla ricerca di immagini più forti. Come minimo questo materiale dovrebbe essere a pagamento: a 12 anni non si è titolari di carta di credito».

In attesa di questi provvedimenti, come si accorge un genitore se i figli cercano il porno in rete?

«Diamo per scontato che lo facciano. Tanto se non lo fanno loro, lo fa un amico. E poi parliamoci, con chiarezza. Spieghiamo che un video porno può sembrare divertente o particolare, ma che nella vita reale le relazioni sono molto diverse. E i ragazzi lo chiedono come sono le relazioni reali. Lo abbiamo sperimentato quando ci siamo affacciati nelle scuole con programmi o lezioni specifiche».

Se i ragazzi sono interessati, perché non calano né stupri né femminicidi? Né gli stereotipi.

«Il problema sono gli educatori, gli insegnanti e i genitori. Appena si parla di educazione alla sessualità scoppia il putiferio. I genitori si oppongono: “Volete fare dei nostri figli dei deviati. Deve essere la famiglia a parlare di questi argomenti. Però, poi la famiglia non fa e impedisce alle scuole di portare avanti. Ci sono stati attacchi feroci contro le scuole che hanno provato a introdurre questi temi. In Spagna l’educazione sessuale è ordinaria; in Italia è tabù».

Non riuscite a portare la formazione strutturale nelle scuole. Intanto a una donna quali segnali indicherebbe come campanelli d’allarme in una relazione?

«Qualsiasi segnale di sofferenza nella relazione perché l’altra persona non riconosce il nostro valore, ci denigra, non ci dà fiducia o ci toglie spazio. Tutto quello che fa stare male è un segnale da non ignorare».

E quanto servono, invece, i percorsi per uomini maltrattanti? Quanto aiutano a uscire dalla violenza?

«Se per cambiamento intendiamo interruzione della violenza fisica, i risultati sono ottimi: al 100% c’è un miglioramento, all’80% c’è un’interruzione, anche nel corso del programma che in media dura un anno. Per il maltrattamento psicologico è più complicato: abbiamo un miglioramento nel 60-70% dei casi, come ci confermano anche le partner, anche se il risultato non è omogeneo».

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