La sorella morta abbracciando due coniugi, le inchieste e il vaffa al comandante: Loris Rispoli e una vita per la verità sul Moby Prince
Il presidente dell’associazione dei parenti delle vittime è ora ricoverato. Per la prima volta, dal 1992, non era in testa al corteo per l’anniversario
Ci sarà lo stesso Loris Rispoli. Come sempre. Anche senza esserci. Sarà in testa al corteo con il cuore, la maglietta rossa di #iosono141, i baffi in disordine e l’ostinazione di sempre. In una mano una rosa, nell’altra quello striscione blu, con la scritta bianca, che è diventato il manifesto del suo impegno civile: «Moby Prince: 140 morti nessun colpevole». Non ci sarà con le parole. Ogni volta diverse: misurate, ma pesanti. Chiare. Mai banali. Ma sarà insieme a tutti noi. E noi con lui. Anche se adesso è impegnato altrove. A combattere per sé stesso e non per la memoria di altri. Come ha fatto negli ultimi trent’anni. Una vita, dentro alla sua di vita. Che aveva costruito e pensato per essere normale, quasi ordinaria: impiegato alle Poste, addirittura. Ed è cambiata per sempre – come molte altre – la notte del 10 aprile 1991, quando era poco più di un ragazzo. Rendendolo negli anni – senza volerlo e forse saperlo – un simbolo. Un esempio ostinato di chi cerca verità e giustizia. E non si arrende. Nemmeno davanti ai silenzi. Alle porte chiuse in faccia, alle sconfitte giudiziarie, alle bugie e perfino alle prese in giro.
Sulla Moby Prince c’era sua sorella Liana, che sul traghetto della Navarma diretto a Olbia lavorava alla boutique: aveva 29 anni. Era giovane e sorridente nella foto che Loris porta sempre con sé. La sua esistenza se l’è mangiata il fuoco insieme con quella di altre 139 persone, tra passeggeri e personale di bordo. Tre giorni dopo la tragedia, in un hangar dentro al porto di Livorno, venne allestita una camera ardente dove i parenti delle vittime furono convocati per riconoscere quel che restava dei loro cari. Racconta Rispoli ricordando quei momenti: «Non volevo che quel dolore toccasse ai miei genitori. Ecco perché andai io a vedere che cosa c’era sotto il telo bianco con accanto il nome di mia sorella. Poco prima un uomo privo di sensibilità fece svenire alcune persone accanto a me perché disse: “Saranno riconoscimenti difficili, dovrete analizzare anche i denti, vi troverete di fronte a pezzi arrosto…”. Invece Liana la riconobbi subito, notai i suoi capelli biondi, aveva ancora indosso l’uniforme blu, gonna e giacca e i suoi effetti personali. Era morta abbracciando i coniugi Guizzo per farsi coraggio, mentre speravano ancora che arrivassero i soccorsi…».
Uscito da quel cimitero a due passi dal mare, Loris si è messo al timone di una nave che da allora cerca il porto della verità in mezzo alla nebbia. E non è più sceso. Con lui, per primi, sono saliti gli altri parenti delle vittime. Insieme hanno disegnato la rotta dell’associazione: «Vogliamo sapere che cosa è successo, vogliamo che la giustizia trovi i colpevoli di quella strage. Perché di questo si è trattato».
Ne ha viste Loris in trent’anni. La prima indagine con molte lacune. L’assoluzione degli imputati al processo di primo grado e poi in appello. L’archiviazione della seconda inchiesta. E l’ultima sentenza contraria del tribunale di Firenze che ha rigettato la richiesta danni presentata allo Stato. Tanti schiaffi che avrebbero potuto affondarlo. E invece no. Perché sono arrivati anche molti abbracci: sindaci, consiglieri di ogni ordine e grado, assessori, parlamentari, ministri. Tutti venuti a toccare – spesso in campagna elettorale – quell’oracolo di memoria e impegno in un Paese smemorato e distratto. Ma se gli chiedi a quale sia più affezionata ti racconterà di quei giovani che gli scrivono chiedendo notizie sul Moby perché hanno letto un articolo o visto un servizio in tv. E vogliono capire. Sapere. E Loris racconta. Sempre. Partendo dall’inizio, dal ruolo e dai comportamenti mai digeriti dell’armatore Vincenzo Onorato, presidente dell’allora Navarma, e di quelli del comandante del porto Sergio Albanese che doveva gestire i soccorsi la notte del disastro. Perché due sono i suoi chiodi fissi: le condizioni del traghetto e l’aver lasciato morire 140 persone senza provare a salvarle.
Ecco perché, fino a oggi, il giorno più bello del suo viaggio è stato nel gennaio di tre anni fa. Quando a Roma la commissione parlamentare d’inchiesta ha rivelato i risultati di due anni di indagine. Quella mattina aveva messo camicia e cravatta, ma sotto aveva la solita maglietta rossa. E sul palco di palazzo Giustiniani, per una volta, si lasciò andare: mando un vaffa ad Albanese ricordando quando l’allora comandante del porto disse: «I livornesi dovrebbero ringraziarmi per aver salvato la stagione balneare».
Poi a chi gli chiedeva se era tempo di mettere lo striscione blu e bianco in un armadio rispose: «Non lo ripongo perché non siamo ancora arrivati alla verità. Abbiamo fatto un durissimo percorso chiedendo in ogni luogo verità e giustizia, a tutti abbiamo ripetuto la nostra rabbia ma nessuno ci ascoltava. Il lavoro della Commissione ha dato dignità alla nostra battaglia e ai morti che reclamano giustizia. Da qui possiamo ripartire per fare dell’Italia un Paese più giusto: perché la verità negata a noi familiari è una verità negata a tutto il Paese». Ecco perché anche se non ci sarà ci saremo noi per lui. —
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