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La sorella morta abbracciando due coniugi, le inchieste e il vaffa al comandante: Loris Rispoli e una vita per la verità sul Moby Prince

Federico Lazzotti
La sorella morta abbracciando due coniugi, le inchieste e il vaffa al comandante: Loris Rispoli e una vita per la verità sul Moby Prince

Il presidente dell’associazione dei parenti delle vittime è ora ricoverato. Per la prima volta, dal 1992, non era in testa al corteo per l’anniversario

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Ci sarà lo stesso Loris Rispoli. Come sempre. Anche senza esserci. Sarà in testa al corteo con il cuore, la maglietta rossa di #iosono141, i baffi in disordine e l’ostinazione di sempre. In una mano una rosa, nell’altra quello striscione blu, con la scritta bianca, che è diventato il manifesto del suo impegno civile: «Moby Prince: 140 morti nessun colpevole». Non ci sarà con le parole. Ogni volta diverse: misurate, ma pesanti. Chiare. Mai banali. Ma sarà insieme a tutti noi. E noi con lui. Anche se adesso è impegnato altrove. A combattere per sé stesso e non per la memoria di altri. Come ha fatto negli ultimi trent’anni. Una vita, dentro alla sua di vita. Che aveva costruito e pensato per essere normale, quasi ordinaria: impiegato alle Poste, addirittura. Ed è cambiata per sempre – come molte altre – la notte del 10 aprile 1991, quando era poco più di un ragazzo. Rendendolo negli anni – senza volerlo e forse saperlo – un simbolo. Un esempio ostinato di chi cerca verità e giustizia. E non si arrende. Nemmeno davanti ai silenzi. Alle porte chiuse in faccia, alle sconfitte giudiziarie, alle bugie e perfino alle prese in giro.

Sulla Moby Prince c’era sua sorella Liana, che sul traghetto della Navarma diretto a Olbia lavorava alla boutique: aveva 29 anni. Era giovane e sorridente nella foto che Loris porta sempre con sé. La sua esistenza se l’è mangiata il fuoco insieme con quella di altre 139 persone, tra passeggeri e personale di bordo. Tre giorni dopo la tragedia, in un hangar dentro al porto di Livorno, venne allestita una camera ardente dove i parenti delle vittime furono convocati per riconoscere quel che restava dei loro cari. Racconta Rispoli ricordando quei momenti: «Non volevo che quel dolore toccasse ai miei genitori. Ecco perché andai io a vedere che cosa c’era sotto il telo bianco con accanto il nome di mia sorella. Poco prima un uomo privo di sensibilità fece svenire alcune persone accanto a me perché disse: “Saranno riconoscimenti difficili, dovrete analizzare anche i denti, vi troverete di fronte a pezzi arrosto…”. Invece Liana la riconobbi subito, notai i suoi capelli biondi, aveva ancora indosso l’uniforme blu, gonna e giacca e i suoi effetti personali. Era morta abbracciando i coniugi Guizzo per farsi coraggio, mentre speravano ancora che arrivassero i soccorsi…».

Uscito da quel cimitero a due passi dal mare, Loris si è messo al timone di una nave che da allora cerca il porto della verità in mezzo alla nebbia. E non è più sceso. Con lui, per primi, sono saliti gli altri parenti delle vittime. Insieme hanno disegnato la rotta dell’associazione: «Vogliamo sapere che cosa è successo, vogliamo che la giustizia trovi i colpevoli di quella strage. Perché di questo si è trattato».

Ne ha viste Loris in trent’anni. La prima indagine con molte lacune. L’assoluzione degli imputati al processo di primo grado e poi in appello. L’archiviazione della seconda inchiesta. E l’ultima sentenza contraria del tribunale di Firenze che ha rigettato la richiesta danni presentata allo Stato. Tanti schiaffi che avrebbero potuto affondarlo. E invece no. Perché sono arrivati anche molti abbracci: sindaci, consiglieri di ogni ordine e grado, assessori, parlamentari, ministri. Tutti venuti a toccare – spesso in campagna elettorale – quell’oracolo di memoria e impegno in un Paese smemorato e distratto. Ma se gli chiedi a quale sia più affezionata ti racconterà di quei giovani che gli scrivono chiedendo notizie sul Moby perché hanno letto un articolo o visto un servizio in tv. E vogliono capire. Sapere. E Loris racconta. Sempre. Partendo dall’inizio, dal ruolo e dai comportamenti mai digeriti dell’armatore Vincenzo Onorato, presidente dell’allora Navarma, e di quelli del comandante del porto Sergio Albanese che doveva gestire i soccorsi la notte del disastro. Perché due sono i suoi chiodi fissi: le condizioni del traghetto e l’aver lasciato morire 140 persone senza provare a salvarle.

Ecco perché, fino a oggi, il giorno più bello del suo viaggio è stato nel gennaio di tre anni fa. Quando a Roma la commissione parlamentare d’inchiesta ha rivelato i risultati di due anni di indagine. Quella mattina aveva messo camicia e cravatta, ma sotto aveva la solita maglietta rossa. E sul palco di palazzo Giustiniani, per una volta, si lasciò andare: mando un vaffa ad Albanese ricordando quando l’allora comandante del porto disse: «I livornesi dovrebbero ringraziarmi per aver salvato la stagione balneare».

Poi a chi gli chiedeva se era tempo di mettere lo striscione blu e bianco in un armadio rispose: «Non lo ripongo perché non siamo ancora arrivati alla verità. Abbiamo fatto un durissimo percorso chiedendo in ogni luogo verità e giustizia, a tutti abbiamo ripetuto la nostra rabbia ma nessuno ci ascoltava. Il lavoro della Commissione ha dato dignità alla nostra battaglia e ai morti che reclamano giustizia. Da qui possiamo ripartire per fare dell’Italia un Paese più giusto: perché la verità negata a noi familiari è una verità negata a tutto il Paese». Ecco perché anche se non ci sarà ci saremo noi per lui. —

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