Il gesto folle
Sette vittime, il prezzo di un abito da 5 euro: tre anni fa il rogo alla Teresa Moda
Prato: così morirono il 1° dicembre 2013 gli operai cinesi schiavi della moda low cost. Abbiamo rivissuto con i superstiti la tragedia che ha cambiato la storia della presenza orientale in Toscana
La mattina del 1° dicembre 2013 un incendio devastò un capannone nella zona industriale di Prato. Dentro furono trovati sette cadaveri, tutti cinesi, in buona parte senza permesso di soggiorno, uccisi dalle esalazioni e bruciati dal rogo. Il loro nomi: Zheng Xiuping, Rao Changjian, Lin Guang Xing, Wang Chun Tao, Dong Wenqiu, Su Qifu e Xue Xieqing. Gli operai vivevano e lavoravano nella ditta Teresa Moda, in una situazione di promiscuità comune a migliaia di altre aziende a conduzione cinese. A tre anni di distanza “Il Tirreno” vuole ricordare la strage con un’inchiesta. Per commemorare le vittime di un modello produttivo che tuttora rappresenta una fetta non trascurabile della ricchezza della Toscana centrale ma anche per capire se da quella tragica alba è cambiato qualcosa. In meglio o in peggio (qui il racconto della strage scritto in lingua cinese:普拉托的一家华人服装厂发生火灾">普拉托的一家华人服装厂发生火灾).
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«Mi chiamo Chen Gao, ho 42 anni e il mio lavoro è stirare gli abiti. Ho cominciato a lavorare alla Teresa Moda, che noi chiamiamo "Jeimei", delle sorelle, nel maggio 2013. Lavoravo 13 ore al giorno, per una paga di 40-50 euro. Mangiavo e dormivo lì dentro, come tutti gli altri. Ci davano le stoffe, noi le tagliavamo, venivano portate fuori a cucire e tornavano che erano vestiti. Poi c’era chi tagliava i fili, chi metteva i bottoni e chi, come me, stirava. Non esiste orario di lavoro alla Jeimei, si lavora fin quando ce n'è bisogno, anche sette giorni alla settimana feste comprese ma sono fortunato perché ho sentito dire che ci sono cinesi che prendono 1 euro e 40 centesimi l'ora. La notte del 1° dicembre ero lì e, degli operai, sono l'unico sopravvissuto. Queste sono le cicatrici del fuoco".
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La mattina del 30 novembre 2013 Chen Gao si sveglia tardi. Sa che lo aspetta la solita pesante giornata di lavoro al banco da stiro. È un cottimista, più stira più guadagna, lo stipendio è al nero e comprende vitto e alloggio. Il pasto arriva con un catering cinese, riso e pollo, e Chen lo consuma nella sua ciotola. Poi tutta una tirata fino alle una di notte, quando stacca. Mangia qualcosa, fa una doccia e si ritira in camera. Fuori è freddo, c'è un vento cane di tramontana.
- VIDEO Le immagini inedite del rogo e le parole dei superstiti (il testo prosegue dopo le immagini)
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Chen Gao dorme in una stanza un po’ più grande delle altre dove c’è anche il letto di Song. Da un lato c’è l’ufficio dove abita la famiglia della “capa”, Lin Youli con il marito Hu Xiaoping e il figlio di 5 anni, e una stanzetta con il bollitore per il tè e il forno a microonde. Dall’altro c’è la stanza di “Afu”, Qu Sifu. Un corridoio ingombro di scatoloni costeggia le camere e conduce in fondo al capannone dove una scala sale al soppalco: qui vivono, ma sarebbe meglio dire dormono, gli altri operai. Le camere sono equipaggiate con il minimo indispensabile: un piccolo condizionatore perché la temperatura d'estate schizza a 40 gradi, un letto, lo spazio appena per poggiare i piedi, alzarsi e scendere al lavoro. Ci sono le prese elettriche, scoperte come nervi a fior di pelle, che servono alla ricarica dei telefonini. Qualcuno ha il computer. Il dormitorio è fatto con dei tramezzi, 53 lastre di cartongesso.
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A Prato i primi cinesi sono arrivati alla fine degli anni Ottanta, erano magri e smarriti, pallidi più che gialli, sghembi e curiosi nelle loro posture, quell’accucciarsi sui talloni che era il segno distintivo di un’alterità rurale. Venivano tutti dalla provincia dello Zhejiang, nel sud della Cina, e in particolare dalla città di Wenzhou. Si infilarono nelle maglie larghe del distretto tessile, le lavorazioni a basso valore aggiunto e ad alta densità di manodopera: la confezione di abiti, gesti ripetitivi ed eserciti sferraglianti di macchine "taglia e cuci". Riempirono i vuoti lasciati dalla crisi del distretto, capannoni al limite dell’agibilità che divennero fabbriche-dormitorio. Quando non è bastata più la vecchia area industriale di via Pistoiese, che oggi tutti chiamano Chinatown, hanno invaso la nuova, quella lunga teoria di capannoni che sfila dal finestrino percorrendo l'autostrada in direzione Firenze.
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Oggi sono 40mila i cinesi di Prato, su una popolazione di 192mila abitanti, più del 20% del totale, 7700 le imprese a conduzione orientale. E il giro d’affari della comunità è gigantesco se si pensa che dal 2006 al 2010 attraverso il circuito dei "money transfer" sono stati esportati in Cina 4 miliardi e mezzo di euro. Il distretto dei pronto moda di Prato è forse il più importante d'Europa per i volumi prodotti: un exploit in gran parte basato sullo spregio delle più elementari regole, fiscali, previdenziali, lavoristiche, di sicurezza. La fabbrica-dormitorio di via Toscana, ad esempio, esisteva dal 2008 e tutti sapevano. «O si affitta così oppure nulla» dice, in un’intercettazione agli atti dell'inchiesta, uno dei proprietari del capannone, Massimo Pellegrini, immobiliarista pratese che vive di affitti. In un sopralluogo del 7 aprile 2010 il progettista di impianti elettrici Federico Baldesi aveva annotato allarmato: “Disastroso” e “N.B- SCHIAVI”, proprio con le maiuscole. Tanta era l’assuefazione alla promiscuità tra produzione e residenza che il soppalco abusivo di 35 metri i per tre - quello che crollerà nell'incendio - era stato censito dall’azienda municipalizzata dei rifiuti, l’Asm, come superficie tassabile. La Tari da far pagare sul dormitorio.
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«Sono un collega e amico di Chen Gao e il mio nome è Wu Lifu, ho 44 anni e come lui sono uno stiratore. Non ho mai avuto il permesso di soggiorno. Sono arrivato alla ditta tramite annunci pubblicitari. Appena arrivai, nel 2009, Lin Youli mi mostrò la stanza e mi disse che avrei dormito e mangiato in fabbrica. Non ho mai avuto uno stipendio fisso, dipendeva dal lavoro, a volte è capitato di lavorare anche la domenica, il giorno di riposo non esiste. La notte dell'incendio la ricordo bene. Ho finito verso le 2 ma anzichè dormire dentro la ditta sono andato dalla mia fidanzata, nel capannone davanti. Lei mi ha invitato e abbiamo trascorso la notte chiacchierando e bevendo fin dopo le sei. Alle 6 e 20 abbiamo sentito bussare alla porta e gridare "Incendio! incendio!". Sono subito corso fuori e ho visto, come si dice, l'inferno. Inferno, giusto?».
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«Morire in queste condizioni nel cuore della Toscana, culla della civiltà, è aberrante» dice Lorenzo Gestri, il sostituto procuratore che ha coordinato l’inchiesta ottenendo la condanna dei titolari cinesi della ditta e dei proprietari italiani del magazzino. «Questo non è stato il processo contro i proprietari pratesi o contro l’intreccio tra cinesi e italiani. È stato il processo contro il rapporto malato che si sviluppa tra proprietari e inquilini, un rapporto di reciproca convenienza, un patto di sangue che si rompe nel sangue il 1 dicembre 2013; è stato il processo a due professionisti dell’immobiliare che hanno accettato consapevolmente un rischio». Il 15 dicembre a Firenze si celebrerà l'appello chiesto dai due proprietari pratesi e il rischio, dice l'avvocato Tiziano Veltri che assiste i familiari di sei delle sette vittime, è «di riportare l'orologio all'anno zero, quello in cui si sosteneva che il proprietario di un capannone poteva non sapere cosa vi succedeva dentro anche se vi erano stati anni e anni di affitto. Gli immobiliaristi di Prato sono tutti lì che aspettano».
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«Dunque - dice Chen Gao, l'operaio superstite - sento delle urla venire dal soppalco e mi sveglio. Gridavano al fuoco, al fuoco. Esco dalla mia stanza e vedo le fiamme, già alte, nella parte del capannone dove c’erano le stoffe. Non riesco a respirare dal fumo ma con Xiao Song raggiungo l’uscita, apro il portone ed esco. Ciò che avevo addosso era bruciato, non mi rimaneva niente. Dietro di noi esce anche la “capa”, con il bambino e il marito che sviene. La “capa” gli fa la respirazione bocca a bocca mentre io vado a bussare forte al capannone davanti gridando “Incendio! incendio!” ma non apre nessuno, dormivano. Dentro intanto bruciavano tutti”.
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Si chiama “flashover”. L'incendio si innesca sordo, silente, satura l'aria e a un certo punto si raggiunge una temperatura tale che i gas caldi che si sono accumulati nella parte alta del capannone si accendono. E' la vampata e oggetti anche distanti dal focolaio iniziano a bruciare. Il primo ad accorgersi del fumo è il bimbo, Hu Yie detto "Giorgio", che dorme con i genitori nella stanzetta all’ingresso della fabbrica. Loro tre scappano, come anche Chen e XiaoSong, che era clandestino e non si rivedrà mai più. Tutti gli altri restano intorpiditi dal fumo e dal sonno. Su Qifu, 43 anni, tagliatore di stoffe, dormiva al piano terreno. Alle 6 telefona alla moglie Gong Suilan, non riesce a capire quello che sta succedendo e le chiede alcuni contatti di wechat, il social usato dai cinesi. «Quando mi ha telefonato gli ho detto Laochen…. Mi ha detto “loro sono tutti dentro, stanno dormendo”, ho sentito che la voce era assonnata, ha detto con me due o tre parole, “aiuto sto morendo” e poi ha messo giù il telefono, forse è svenuto». Lo troveranno con l'iPhone ancora in mano, a pochi passi dalla sua camera, brace nella brace. «Povero Aifu, l’abbiamo cercato dentro, c’era una persona sdraiata per terra irriconoscibile perché nera dal fumo, così ho preso dell’acqua e gli ho pulito il viso. Lui parlava confuso, ma non era lui. Sopra si sentivano lamenti» racconta Lin You Lan, la padrona, l'unica della ditta che quella notte dormiva in un'abitazione.
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Sotto le volte a “shed” del capannone la temperatura – ricostruiranno poi i vigili del fuoco – schizza a mille gradi, si formano onde di pressione e di calore e lance di fuoco. La scala è in fiamme e sei operai restano prigionieri nel soppalco. Uno di loro, Xue Xieqing, prova a uscire dalla finestra della sua camera, l’unica del capannone, ma ci sono le inferriate e così scava con le mani nel cemento per fare un buco e scalzarle, scava così tanto che gli troveranno le mani sanguinanti. Quando i pompieri arrivano in via Toscana, vedono un braccio sporgersi dalla finestra: è quello di Xue, 34 anni, professione imballatore, l’unico che è morto vestito e riconoscibile.
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Gli altri cinque operai si accalcano vicino alla scala incendiata, anche se si lanciassero di sotto avrebbero da fare trenta metri tra le fiamme per raggiungere l'uscita. Non si odono grida ma lamenti sempre più deboli, su un crepitio di fondo, quello dei tessuti che bruciano. Nell’aria diventata cinerina si intravedono corpi irradiati dal calore e storditi dai gas di cianuro e dal monossido,i vestiti liquefatti, le facce annerite. Lin Guang Xing, 51 anni, anch’egli irregolare, è alla Teresa Moda da soli 10 giorni, metteva i bottoni e non si era chiesto se questa fosse la vita migliore possibile, aspettava solo il primo stipendio. Rao Zhangjian, 42 anni, stiratore, detto “testa pelata”, senza permesso di soggiorno come Lin, alle una aveva chiamato la sorella per scambiare due parole, è stato ritrovato orrendamente mutilato, la mano destra stretta in un pugno chiuso, stringere i pugni aiuta a sopportare il dolore. Wang Chuntao, 46 anni, tagliava i fili, quei fili che non ci piacciono quando li troviamo sugli orli dei vestiti, ed era orgogliosa della collana d’oro che esibiva al collo e aveva l’indice della mano destra più corto: il marito Hu Congken l’ha riconosciuta così. Anche Zheng Xiuping, 50 anni, tagliava i fili, aveva speso tutto il suo stipendio per comprare due iPhone all’Apple Store dei Gigli, uno per lei e uno per il marito Lin Houlong. Con cui si era sentita, tra le 1 e le 2, per la buonanotte. Dong Wen Qiu, 45 anni, era il modellista, lavorava in un’altra ditta del Macrolotto ma dormiva lì.
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Quando comprate una maglietta a 5 euro fatevi una domanda. Chiedetevi come mai costa così poco e a quanto può averla comprata il dettagliante dal grossista. Poi domandatevi a quanto può averla acquistata il grossista dal produttore. Man mano che si scende nella scala produttiva i margini si comprimono, e alla fine non resta niente, né soldi né sicurezza. «Il Far West è il codice con cui lavorano non le microimprese da sottoscala o i capannoni diretti da cinesi schiavisti, ma le grandi multinazionali. È la forma attraverso la quale le marche griffate abbattono il costo del lavoro» dice Marco Revelli, sociologo e fustigatore degli effetti perversi della globalizzazione. «Non posso vendere un cappotto a 150 euro, non me lo comprerebbero. Per poterlo vendere a 50-60 euro devo comprarlo a 20» confessa un ambulante di Firenze che si rifornisce a Prato a Stefano Becucci in “Etnografia del pronto moda. I laboratori cinesi nel distretto di Prato”. E dietro la t-shirt a pochi euro c’è tutto «un sistema con forti complicità italiane, come abbiamo accertato nell’ultima inchiesta» dice Giuseppe Nicolosi, capo della Procura.
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Se oggi a Prato qualcuno volesse piangere i morti della Teresa Moda - la nostra Thyssenkrupp - raccogliersi e pensare a questi martiri della moda low cost, non troverebbe un luogo adatto. I corpi, dopo sette mesi nei freezer dell’obitorio per complicazioni burocratiche, sono stati cremati e sono tornati in Cina, com'era giusto che fosse. E qui non è rimasta una lapide, una targa, non c'è un mazzo di fiori sul portone del capannone che lo distingua dai tanti altri chiusi.
L'unica memoria sono tre sentenze esemplari (per i titolari cinesi la condanna è stata confermata in secondo grado) e un filmato del Tirreno: quello del pianto inconsolabile della figlia di Wang Chuntao, l'operaia con la collana d'oro, ai funerali del 21 giugno 2014. «Mamma ti avevo detto di non lavorare così tanto, avrei dovuto dirtelo più volte. Mamma hai sofferto tanto e ti chiedo perdono. Mamma, ora che non ci sei chi guiderà il mio cammino? Mamma dove sei adesso?».
- VIDEO L'inferno di fuoco nella fabbriuca
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L'INCHIESTA: LE ALTRE PUNTATE
2. Spazzolini e ciotole: i poveri oggetti delle sette vittime