Carofiglio: «Nei miei gialli non cerco colpevoli, l’indagine è dentro l’animo umano»
Lo scrittore: «Non scrivo libri come fossero giochi enigmistici». L’ultimo uscito s’intitola “Rancore”: «Vedo una gran rabbia, la sinistra se ne occupi»
LIVORNO. Il personaggio-clou di “Rancore”, l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, è Penelope Spada. Nel ventaglio dei suoi personaggi c’è un avvocato (Guido Guerrieri), un maresciallo dei carabinieri (Pietro Fenoglio) e adesso una ex pm (Penelope Spada): ci stiamo avvicinando a qualcosa di molto vicino a Carofiglio Gianrico, Bari, classe ‘61? L’occasione per chiederglielo è l’incontro con i lettori a Livorno per “Leggermente” a Villa Fabbricotti: almeno cinquecento persone nel parco e oltre un’ora di firma-copie.
«All’inizio io pm in servizio mi sono messo a raccontare le aule di giustizia ma con gli occhi dell’avvocato Guerrieri. Perché? Mi è venuto così, ma il motivo reale l’ho scoperto più tardi: è il bisogno di mettere una certa distanza. Provare a mettersi nei panni di qualcun altro. Del resto, non è forse vero che per Proust “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi”?».
Sta ipotizzando che la separazione delle carriere debba riguardare non solo i giudici ma anche i loro personaggi romanzeschi?
«Io sono per tutte le separazioni possibili… (ride). Ma la distanza è essenziale, lo ripeto».
Lei è stato anche senatore. Dopo Penelope cosa intravede: magari un senatore che il suo partito vuol mandare all’Antimafia perché ha bisogno di un eroe?
«Della mia vita precedente in toga non ho il rimpianto di averla lasciata, qualche nostalgia sì: e forse è questo che mi ha spinto a raccontarla».
Sì, ma le chiedevo del Senato: il Parlamento lo racconterebbe?
«Francamente no, almeno per ora. Lo dico al di là delle facili battute, e lo dico riprendendo qualcosa che il personaggio di Penelope dice nel primo romanzo: le cose più stupide le fanno le persone intelligenti, e non malgrado la loro intelligenza bensì proprio a causa della loro intelligenza».
Siamo al teorema dell’intelligenza del politico…
«Standoci dentro ho visto che ci sono persone intelligenti., ben disposte verso il bene pubblico. Ma con un paradosso che riscontravo quando mettevo piede in una saletta ecumenica per fumatori: ho ascoltato acutissime previsioni e scenari disegnati al millimetro. Avevano un solo problema: l’indomani si infrangevano sulla realtà e il mondo se ne andava altrove. Ma non per questo arrivava il dubbio: l’indomani la stessa arte di esercitare una lucida capacità di analisi si sarebbe infranta di nuovo e tutto sarebbe ricominciato daccapo. Come nel film del “Giorno della marmotta”…».
“Rancore”. Perché questo titolo? Le case editrici hanno abituato noi pubblico dei lettori a qualcosa che, nel caso di specie, suonerebbe come “La morte misteriosa di un barone massone” o “I segreti insaguinati di Penelope ex pm senza più toga”…
«Prendiamo questa trama: un giovane cresciuto da genitori adottivi parte per un viaggio, uccide un tale che scoprirà poi esser suo padre e si invaghisce di una lei che non sa essere sua madre, diventa fuggitivo...: come lo intitoliamo?».
“L’assassino che venne dal futuro”?
«Ci ha già pensato Sofocle e l’ha chiamato “Edipo re”. C’entra perché per me il titolo è stato “Rancore” fin dall’inizio, la casa editrice era un po’ più dubbiosa: guarda che il libro dobbiamo anche venderlo. Alla fine, dopo mille tentativi per cercare una alternativa, l’ho spuntata…».
“Rancore”: sembra l’unico sentimento di questa stagione in cui viviamo. Prima ancora dell’odio che è un’onda.
«Vedo una gran rabbia e non la giudico in blocco negativamente: può essere una grande spinta di trasformazione sociale. Ma se mira in direzione sbagliata, magari contro migranti o lgbt, mette in moto gli ingranaggi del capro espiatorio. È qui che è in gioco una certa idea di sinistra: la trasformazione contro la distruzione. Prima ancora del disagio economico c’è qualcosa di più profondo: ha a che vedere con la dignità, trattare con sufficienza il rancore non solo non è una soluzione, è proprio un boomerang».
Sui social quante recensioni quasi da ultrà. Ma anche qualcuno che le dice: questa sarà forse la realtà ma io lettore non voglio la realtà, voglio un “giallo” con le false piste e la scoperta del colpevole alla fine. Imputato Carofiglio, come si discolpa?
«Non mi discolpo affatto, ammetto gli addebiti. L’ho sempre detto: sarebbe un guaio se un libro avesse solo applausi».
Ma qui le dicono: da lei vogliamo un giallo e questo un giallo non è…
«Ci sono due grandi categorie. Da un lato, chi chiede al libro di essere un gioco enigmistico, dall’altro, chi pensa che l’investigazione sia anche una indagine sull’animo umano, la ricerca di svelare una briciola di verità sulla condizione umana attraverso gli strumenti della finzione».
Dividerei il cosiddetto “giallo” in due categorie. Da un lato, quelli d’atmosfera: Maigret. Dall’altro, quelli della deduzione logica: Lyncoln Rhyme e Amelia Sachs. Lei dove si collocherebbe?
«Io la bipolarità la vedo secondo un altro discrimine. Per me la lettura è un atto creativo. Ci sono libri forse tecnicamente ben costruiti ma che appena finiti quasi neanche ti ricordi: sono un bell'ingranaggio. Ci sono invece libri che cominciano a scavarti dentro dopo che hai letto l'ultima riga e ti pongono domande che forse nemmeno ti immaginavi».
Eppure la sua pare una scrittura asciutta, lineare...
«Eppure le frasi che voi lettori vedete sono state scritte e riscritte, 7-8 volte. Ma la parte migliore è quel che non c'è, quel che sta fra le righe».
Tradotto?
«L'avvocato Guerrieri non l'ho mai descritto fisicamente ma ogni lettore gli ha dato corpo, movimenti, voce...».
A proposito: non avrà mica intenzione di abbandonarlo, vero?
«No, Guerrieri tornerà. Non so quando ma tornerà…».
Diciamo fra…
«Forse due o tre anni. Quel che intanto posso dire è che l’anno prossimo sarà portato sullo schermo da Netflix “Le tre del mattino”: non è un giallo, ma è una indagine. Sul rapporto fra padre e figlio».
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