Pistoia, Luca Gori (Caript): «Difendiamoci dagli affitti brevi, non facciamo come le altre città»
Professore di diritto pubblico alla Scuola Superiore Sant’Anna e tra i maggiori studiosi italiani del Terzo settore, è il più giovane presidente di una fondazione di origine bancaria: «Costruiremo un polo per la ricerca»
«Perché sono ottimista? Perché devo esserlo». Luca Gori, 42 anni, pistoiese, professore di diritto pubblico alla Scuola Superiore Sant’Anna e tra i maggiori studiosi italiani del Terzo settore, è il più giovane presidente di una fondazione di origine bancaria: guida Caript, il motore silenzioso – ma non neutrale – che tiene insieme ambizioni e paure della provincia. In bilico tra accademia e territorio, prova a dare un senso al futuro.
Presidente, è ancora il presidente di fondazione bancaria più giovane d’Italia?
«Che sappia io, sì. All’ultima verifica, fatta a Venezia la settimana scorsa, era ancora così».
In un ambiente percepito come “paludato”, di solito si scelgono profili più maturi. Perché i consiglieri della Fondazione Caript hanno scelto lei?
«C’è un dato anagrafico, che è quello che tutti conoscono. Poi però c’è il curriculum, l’esperienza che uno costruisce sul territorio. Io sono nato qui, ho studiato qui e qui ho molto lavorato, soprattutto con il terzo settore, il mondo del volontariato e dell’attivismo civico. Credo che questo abbia contato, oltre al mio background universitario. E poi non nego che la proposta e la richiesta di assumere questo impegno siano arrivate dal mio predecessore, il presidente Zogheri».
Presentando il piano di investimenti, ha detto che la Fondazione non vuole limitarsi a finanziare progetti, ma vuole contribuire a guidare la trasformazione della città e della provincia. Una linea simile a quella che ha espresso anche Bernabò Bocca a Firenze: la fondazione non solo come soggetto che eroga risorse, ma come attore che detta l’agenda. Fate da supplenti alle istituzioni?
«Direi di no, non in questi termini. Sono consapevole che la nostra istituzione sul territorio svolge un ruolo importante, sia per le risorse che mette a disposizione che per le competenze, ma il punto decisivo è il metodo con cui questo ruolo viene esercitato. E su questo sono molto fermo: collaborazione ad oltranza. Non esiste un’agenda della Fondazione che viene “imposta” al territorio; esiste un’agenda del territorio, che è condivisa con gli enti territoriali, cioè con chi ha la rappresentanza democratica ed esercita il potere politico in forme democratiche. Rispetto a quell’agenda condivisa, la Fondazione si pone come attore che sostiene, supporta, accompagna. Dunque, non c’è un’agenda della Fondazione che si sostituisce a quella delle istituzioni. Non vogliamo essere il supplente di Palazzo di Giano, né di alcun altro palazzo del territorio».
E quindi cosa intende con guidare la trasformazione?
«Uno dei ruoli chiave, secondo me, è quello di accompagnare enti del terzo settore e istituzioni pubbliche ad assumersi il rischio della scommessa: il rischio di dire “proviamoci”, sapendo che non sempre, quando si attiva un processo, c’è la certezza matematica di arrivare al risultato. Noi, con le nostre risorse e la nostra presenza, aiutiamo gli altri ad assumersi il rischio dell’inizio. Questo è uno degli elementi che forse mancano di più sul nostro territorio: il coraggio di sperimentare, di cercare nuove strade».
Questo coraggio nelle istituzioni, secondo lei, manca per carenza di risorse o per mancanza di visione?
«Non ho una visione così negativa delle istituzioni. È chiaro che esistono limiti di natura finanziaria, e a volte di natura giuridica o istituzionale. È proprio qui che la Fondazione può giocare un ruolo, mettendo a disposizione competenze. Faccio un esempio: dobbiamo avviare un percorso per una comunità energetica. Come si fa? Possiamo costituire un tavolo in Fondazione, mettere a disposizione risorse, commissionare uno studio di fattibilità. Poi, sulla base di quello, si decide se intraprendere il percorso. Questo, secondo me, è un atteggiamento virtuoso. Perché, alla fine, non c’è buon vento per chi non sa dove vuole andare».
Nel piano che avete illustrato ci sono 14,5 milioni di euro per Pistoia e la provincia, tra cui l’obiettivo di creare un polo universitario a Pistoia in collaborazione con l’Università di Firenze. Perché l’ateneo fiorentino, che è un forte attrattore di studenti sul capoluogo, dovrebbe delocalizzarne alcuni su Pistoia?
«La sfida che ci stiamo ponendo, insieme agli attori del territorio e all’Università di Firenze, non è quella di delocalizzare la formazione, cioè gli studenti, ma di insediare a Pistoia strutture e attività di ricerca, non destinate alla didattica di base. Anche se una presenza storica di didattica a Pistoia già c’è: quella delle professioni sanitarie, un’esperienza molto positiva, su cui stiamo investendo molto. La priorità che abbiamo individuato, incrociando le necessità dell’Università con le aspirazioni del territorio, la presenza industriale e imprenditoriale e la disponibilità di spazi, è l’ingegneria. In questo momento l’asse principale di lavoro è quello».
In Consiglio comunale si è parlato, tempo fa, dell’ipotesi di Agraria in una delle aree in cui vorreste sviluppare il polo universitario, e si è detto che quel progetto è “congelato”.
«In passato si è esplorata la possibilità che Agraria fosse ospitata in parte nella nostra area Gea. Oggi, all’esito di un lavoro corale sul campo, la linea di sviluppo che è emersa parte dall’area ex Uniser, vicino all’ex Breda e alla biblioteca San Giorgio, e guarda verso l’Annona, la zona accanto agli stabilimenti Hitachi. In prospettiva, può considerare anche la nostra area Gea. Quando si dice che il progetto è “congelato” non significa che sia stato fermato: significa che ci si è chiesti qual è l’asse più sensato di sviluppo, e la risposta, al momento, è l’area ex Uniser, dove i progetti sono in fase molto avanzata».
Nel caso di Agraria, si sarebbe trattato comunque di strutture per la ricerca, non per la didattica?
«Sempre per la ricerca, non per la didattica di base. Questo è un punto su cui sono un po’ fissato: il modello di decentramento della formazione universitaria di primo livello lo abbiamo già sperimentato, ha funzionato solo in parte e non è un modello su cui oggi ci sentiamo di investire».
Di che cosa ha più bisogno oggi Pistoia?
«Dal punto di vista economico, il nodo principale è offrire percorsi formativi che puntino non solo a preparare giovani in grado di lavorare nelle nostre imprese, ma che incentivino la permanenza sul territorio. Il vero collo di bottiglia è fra l’uscita dalla scuola superiore o dall’università e l’ingresso nel mondo del lavoro. In questo momento c’è un gap: anche i migliori giovani che abbiamo, a un certo punto, prendono altre strade. Non parlo solo degli ingegneri o dei professionisti altamente qualificati, ma anche dei diplomati tecnici di valore, sia per l’industria che per il vivaismo. Allora mi chiedo: che proposta gli stiamo facendo qui, sul territorio, per mettere i loro talenti al servizio della crescita di questa comunità?».
Le aziende non hanno ancora fatto fino in fondo il salto di innovazione necessario?
«In realtà, sto registrando un clima positivo. Mi pare che il problema sia stato messo a fuoco e vedo uno sforzo notevole».
E sul piano sociale, quali priorità?
«Almeno due: il primo è formativo: non perdere nessuno per strada lungo il percorso scolastico. Un tempo le scuole ci chiedevano soprattutto dotazioni, laboratori, progetti sperimentali. Oggi, parlando con i dirigenti, emergono questioni diverse: l’alternanza scuola-lavoro, l’inclusione degli studenti stranieri, la necessità di costruire progetti educativi extra scolastici. Il secondo tema è l’invecchiamento della popolazione. La nostra provincia ha una delle incidenze di popolazione anziana più alte fra le province italiane: questi anziani hanno bisogno che qualcuno se ne occupi, in termini di servizi, di cura ma anche di socialità».
A Pistoia, fra le città d’arte toscane, il mercato degli affitti brevi è meno sviluppato, anche se sta crescendo. È un fatto positivo o negativo?
«Credo che occorra interrogarsi sulla vocazione che la nostra città deve avere. Il profilo che Pistoia sta assumendo è quello di una città capace di offrire esperienze di turismo lento, turismo esperienziale, punto di partenza per l’esplorazione delle nostre aree interne e punto di collegamento con i territori vicini. Il fatto che il nostro centro storico sia ancora vissuto in modo pieno dai pistoiesi – con tutti i problemi che hanno i centri storici, soprattutto per le attività commerciali – è uno dei principali fattori di interesse. È un centro storico che non è vetrina, ma luogo di vita quotidiana. Per questo penso che vada difeso: è ciò che ci distingue nella platea delle città toscane vicine».
Che rapporto ha avuto con il sindaco? E cosa chiederebbe al futuro sindaco o sindaca?
«Con Tomasi ho avuto un rapporto molto collaborativo e leale. Ci siamo trovati impegnati insieme, come è naturale che sia col sindaco del capoluogo, su molti fronti, e il rapporto personale e istituzionale è stato molto positivo. In generale, sto coltivando molto le relazioni con tutti i sindaci del territorio. Per me sono un termometro importante. Non mi permetto di dare consigli al o alla prossima sindaca. È fondamentale però riuscire a costruire un consenso ampio e trasversale fra le forze politiche su alcuni progetti qualificanti per Pistoia. L’appello che farei è questo: individuare alcuni punti nevralgici sui quali tutti possano riconoscersi e fare il tifo “come Pistoia”, al di là delle appartenenze».
C’è speranza per le terme di Montecatini?
«Io direi che c’è speranza per Montecatini, non solo per le sue terme. Mi pare che si stia delineando un progetto di rilancio della città che ha il suo epicentro nelle terme, ma non si esaurisce in esse».
Lei sembra un ottimista. L’ottimismo funziona ancora, nonostante tutto? Nonostante le guerre, Putin, Trump, Netanyahu?
«Credo che una parte fondamentale del mio mandato sia proprio essere ottimista. Devo esserlo. Dobbiamo programmare le nostre attività interrogandoci su come i grandi scenari di guerra o di crisi internazionale possano incidere sui nostri investimenti, questo mi costringe a fare continuamente collegamenti tra la nostra realtà, magari periferica, e i grandi movimenti globali».
