Pistoia, uccise il cognato: Maiorino condannato a 24 anni. Perché è una sentenza «che scontenta tutti»
Il verdetto della Corte di Assise di Firenze dopo sei ore di camera di consiglio: l’accusa aveva chiesto l’ergastolo ma non è stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà
PISTOIA. Una sentenza che scontenta tutti, accusa e difesa. È quella arrivata oggi in Corte di Assise di Firenze, dopo sei ore di camera di consiglio, e che ha condannato Daniele Maiorino a 24 anni di carcere per l’omicidio del cognato, nonché vicino di casa, Alessio Cini. Una sentenza che scontenta tutti dicevamo.
La figlia in lacrime
Leonardo De Gaudio, il pubblico ministero che aveva diretto le indagini dei carabinieri sull’omicidio Cini, aveva infatti chiesto l’ergastolo. E i 24 anni vengono visti come una condanna lieve dai familiari della vittima, in particolare della figlia, che alla lettura della sentenza è scoppiata in lacrime. Ma 24 anni al posto dell’ergastolo non vengono letti come un “successo” nemmeno dalla difesa dell’imputato (che ha già annunciato ricorso), che invece chiedeva l’assoluzione per Daniele Maiorino. Anzi, paradossalmente dai legali dell’imputato quei 24 anni sono meno comprensibili di un eventuale ergastolo: «Ci chiediamo il motivo – spiega l’avvocato Katia Dottore Giachino – per cui si è arrivati a questa sentenza».
Le opzioni, secondo la legale, erano solo due: «O viene ritenuto colpevole, e in quel caso avrebbero dovuto essere riconosciute anche le aggravanti, e quindi sarebbe stato giusto l’ergastolo. O viene assolto. Questa sentenza ci lascia molti dubbi. Aspettiamo di leggere le carte e ci prepariamo all’appello. Da parte nostra siamo pronti ad arrivare fino alla Cassazione».
Nella “salomonica” sentenza, pronunciata alla presenza dell’imputato, e delle famiglie di vittima e accusato, non è stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà, come richiesto dal pubblico ministero. Ma nell’omicidio Cini, per come sarebbe avvenuto secondo la ricostruzione degli investigatori, la crudeltà non era certo mancata.
L’omicidio nel cortile di casa
Alessio Cini, operaio di 57 anni originario di Sant’Ippolito di Prato era stato ucciso la mattina dell’8 gennaio 2024, nel cortile davanti la villetta trifamiliare in via Ponte dei Baldi, alla Ferruccia di Agliana, dove abitava con la figlia minorenne. Proprio al piano di sopra rispetto all’appartamento nel quale viveva con la moglie e la figlia il cognato Daniele Maiorino, 59 anni, l’uomo condannato oggi con l’accusa di aver ucciso Cini nel cortile esterno della villetta, prima colpendolo alla testa con una spranga (l’autopsia sul corpo di Alessio Cini aveva evidenziato un trauma cranico prodotto da una spranga e traumi toracici per i colpi ripetuti, probabilmente dei calci, subiti a terra e lesioni alle mani nel tentativo di pararli) e poi dandolo alle fiamme mentre era stordito a terra, ancora vivo.
La ricostruzione e le intercettazioni
Secondo la ricostruzione dell’accusa Cini sarebbe uscito alle 5,30 diretto al distributore di benzina per riempire una tanica di carburante per il suo furgone. Al suo rientro avrebbe parcheggiato nel vialetto, per poi rientrare in casa e uscire subito dopo. Ed è proprio allora che avviene l’aggressione mortale. Maiorino, dichiarandosi innocente, ha spesso rivolto i propri sospetti verso un vicino di casa riferendosi ai rapporti burrascosi col Cini. Vicino che però viene scagionato da orari e riprese video: il corpo di Cini viene dato alle fiamme alle 5,58, mentre in base alle telecamere della sua abitazione e ai tracciati telefonici, il vicino si sarebbe allontanato già alle 5,54. Ed è proprio il vicino che, arrivando al lavoro, vede i filmati delle telecamere dallo smartphone, chiama la moglie che a sua volta si affaccia e allerta i soccorsi. Tra i principali elementi a carico di Daniele Maiorino i soliloqui intercettati dalle microspie piazzate nella sua auto nei giorni successivi all’8 gennaio, con frasi come «Ho commesso un omicidio», «Ho perso i’capo», «L’ho preso a calci», «Gli ho dato foco». Parole che il 59enne ha detto di aver pronunciato immedesimandosi nel vicino che stava confessando l’omicidio. Si aggiunge la macchia di sangue sulla sua scarpa, che la difesa sostiene derivi da calpestio. E poi la conoscenza e l’esternazione di alcuni particolari che avrebbe potuto sapere solo l’assassino.
Il movente economico
Quanto al movente, per l’accusa potrebbe essersi trattato di un mix tra ragioni economiche e un raptus di rabbia. Maiorino si trovava all’epoca in condizioni di ristrettezza finanziaria e, vista la condizione agiata della famiglia di Cini, avrebbe approfittato della possibilità di amministrare l’eredità della nipote, in caso di custodia. Il raptus, invece, potrebbe essere scattato poi per l’odore del sigaro fumato dal cognato, a turbare il sonno di Maiorino, magari già infastidito dalle luci del furgone.