Pisa

La ricorrenza

Pisa, 80 anni dall’inferno del 1943: «La pioggia di bombe, il fumo i cadaveri lungo i marciapiedi»

di Francesco Paletti
Le rovine del Ponte di Mezzo e dei palazzi sui lungarni
Le rovine del Ponte di Mezzo e dei palazzi sui lungarni

Ricorrono oggi gli ottanta anni dal terribile bombardamento della città: 1.100 ordigni, 400 tonnellate di esplosivo e 950 vittime accertate

31 agosto 2023
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PISA. Alle 13.01 del 31 agosto 1943, quando le 152 “Fortezze Volanti” degli alleati decollate dal Nordafrica cominciarono a scaricare su Pisa, e in particolare sui quartieri compresi tra Porta a Mare e Porta Fiorentina, il loro carico di morte, fatto di 1.100 ordigni e 400 tonnellate di esplosivo, Nilo Carpita, allora 13enne, futuro sindacalista della Cgil e per 16 anni presidente provinciale della Pubblica Assistenza, era arrampicato su uno dei pini della Tenuta di San Rossore nella zona del Gombo.

«Se lo può immaginare, in casa eravamo in quattro – racconta oggi 96enne –: babbo e mamma disoccupati a causa della guerra, un fratello renitente alla leva e io. Per sbarcare il lunario andavamo lì a raccogliere le pigne che poi vendevamo alle fornaci della zona: le utilizzavano per alimentare i forni». Carpita vide tutto dalla cima di un albero. Come la sequenza di un film tragico eppure nell'immediato difficile da comprendere nella sua piena portata. «Vidi arrivare dal mare questi aerei enormi, con le loro carlinghe luccicanti, passare sopra le nostre teste e dirigersi verso la città – ricorda –. Siccome era una bellissima giornata di sole vedemmo tutto con estrema chiarezza: in particolare le filze di bombe che calavano su Porta a Mare, la Stazione e i quartieri limitrofi. E poi il fumo, prima bianco e poi nero che cominciò ad alzarsi dalle aree colpite».

Era piccolo Carpita, poco più di un bambino. E di bombardamenti aveva solo sentito parlare. «In particolare un paio di mesi prima, dopo quello su Livorno, anch’essa devastata – ricorda –: in casa se ne parlò a lungo, dopodiché decidemmo che Pisa non era più una città sicura e da via Trieste, dove abitavamo, babbo e mamma decisero di sfollare e trasferirsi nell’odierna Arena Metato, che allora si chiamava Arena Pisana. Però nell’immediato non fu facile rendersi conto di cosa stesse accadendo e della carneficina: un bombardamento vero, fino a quel momento, non lo avevo mai visto e da quella distanza non era facile capire, anche perché durò una manciata di minuti».

Una decina, forse meno, riportano le cronache del tempo e gli storici. Che bastarono a radere pressoché al suolo tutta la parte meridionale della città provocando centinaia di vittime: 950 diranno i dati della Prefettura, anche se in tanti hanno assicurato per decenni che furono molte di più, qualcuno ha parlato di due o tre mila.

Non vide quasi nulla, invece, Lamberto Paradossi, oggi 97 anni, allora 17enne. Ma capì e sentì tutto. Lui era nel quartiere di San Marco, una delle zone più colpite, dove abitava con la famiglia e lavorava nel negozio di un barbiere. «Eravamo in bottega quando sentimmo il rombo degli aerei e poi subito dopo il fragore enorme delle prime bombe – racconta –. Ci precipitammo fuori, cominciammo a correre nei campi e poi entrammo in una fossa». Per alcuni minuti fu l’inferno. «Gli ordigni cadevano a destra e a sinistra, a pochissimi metri da noi – ricorda –: aprivano dei veri e propri crateri e sollevavano talmente tanta terra che il fosso in cui ci eravamo rifugiati ne fu riempito, con noi sotto». Dopo qualche minuto, il silenzio. «Aspettammo un po’ e poi fuggimmo verso Putignano che non era stato bombardato e che consideravamo più sicuro», dice.

A casa, in un quartiere devastato, tornerà solo qualche ora dopo, quando già i genitori lo davano per morto. «Il fatto è che tra i tanti cadaveri che in quelle ore erano riversi nelle strade e nei campi, mio padre ne aveva scorto uno di un ragazzo, più o meno della mia età, senza la testa ma accanto a una bici uguale alla mia e con ai piedi dei sandali identici a quelli che indossavo quel giorno – racconta –: s’immagini la festa che mi fecero quando arrivai ai casa».

Non andò bene, invece, a sua sorella Rosanna, di due anni più grande. «Era uscita fuori anche lei per trovare rifugio, quando un ordigno le cadde talmente vicino che lo spostamento d’aria le fece fare uno sbalzo di una ventina di metri – racconta –. Rimase mezza nuda, ma lì per lì sembrò non aver subìto conseguenze. Poi scoprimmo che le si erano spostati i reni e pochi mesi dopo morì».

Non fu l’unica purtroppo. Lo ricorda anche Carpita che, nelle ore successive, si recò in città per rendersi conto dell'accaduto: «Nel tratto di Porta a Mare del viale di Marina, corrispondente all’attuale via 2 Settembre, furono ritrovati molti cadaveri di operai delle vicine fabbriche: era quasi l’ora di pranzo quando bombardarono e loro, d’estate, erano soliti consumare il pasto da quelle parti dove c’era un po’ d’ombra».

Paradossi ha anche ancora chiara in mente le fila dei corpi sul marciapiede del cimitero di via Pietrasantina: «Portavano lì i cadaveri perché i familiari o gli amici potessero riconoscerli – racconta –. Ci andai per accompagnare il marito di una vicina di casa che, dal bombardamento, non si era più vista: ci mettemmo un bel po’ a trovarla, perché i corpi erano tantissimi e perché quello di questa signora, come successo anche ai cadaveri di tante altre vittime, era stato gonfiato dallo spostamento d’aria fin quasi a diventare irriconoscibile. Capii che era lei dal vestito e la indicai al marito, che mi abbracciò e scoppiò a piangere».


 

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