Elba, i cinghiali fanno strage di capre: pastore sale sull’albero e si salva
Il racconto di Daniele Mattera: «Io veterinario di guerra, loro peggio dei lupi. Bisogna fare assolutamente qualcosa per limitare gli ungulati»
MARINA DI CAMPO. Quindici capre ammazzate, l’ultima la settimana scorsa. Mentre un anno fa, nel recinto, si era consumata una strage di capretti. «Anche io ho rischiato di morire: mi sono dovuto arrampicare su un albero perché un branco mi voleva caricare, c’è da tremare quando arrivano così numerosi».
Non si placa all’Elba l’emergenza cinghiali, che sempre più in forze hanno assaltato il gregge di Daniele Mattera, 37 anni e imprenditore a capo dell’azienda di produzione di latticini “Il Caprile – Pastorizia elbana” della Pila, alle porte di Marina di Campo. I suoi animali, grazie ai quali commercializza prodotti unici nel suo genere e ormai da anni apprezzati dalla clientela isolana e turistica, pascolano liberamente sulle colline di San Piero e proprio a poca distanza da qui, venerdì 20 giugno, il sessantaseienne Giovanbattista Arnaldi è stato caricato dagli ungulati mentre si trovava in un appezzamento di terreno alle spalle della sua abitazione, cadendo e finendo all’ospedale: «Erano otto di grossa taglia e altri più piccoli – il racconto di Arnaldi al Tirreno –. Come ho sempre fatto ho battuto le mani per allontanarli, ma a quel punto un esemplare di quelli più grossi ha provato a caricarmi. Non ci ho pensato due volte, ho iniziato ad allontanarmi correndo». Poi, una volta a terra, per fortuna l’animale ha solo grugnito e se ne è andato.
Una sorte che sarebbe potuta toccare al pastore campese, se non si fosse rifugiato su una pianta. L’imprenditore, purtroppo, deve ora fare i conti con lo sterminio di capre. «Ci sono notti in cui non riesco a dormire. Non per i pensieri, non per il lavoro, ma per il rumore di qualcosa che non dovrebbe esserci – racconta Mattera –. È il grugnito dei cinghiali, sempre più vicini, sempre più aggressivi. Non sono più le ombre sfuggenti di una volta. Ora restano, ti guardano, caricano. Io, Romelio (il mio pastore) e il mio cane Joy abbiamo rischiato più volte. Una volta mi sono dovuto arrampicare sugli alberi per sfuggire a una carica e non sto scherzando: è successo e succede ancora. L’anno scorso ho perso tanto. Troppe capre, troppi capretti. I cinghiali mi sono entrati nella stalla, hanno sfondato la recinzione, come un branco organizzato. Quando sono arrivato ho trovato una scena da film dell’orrore: capretti fatti a pezzi, sangue ovunque, mamme capre che belavano nel vuoto. Non è una storia inventata, è la mia vita. E pensavo fosse finita, invece sono tornati alla carica. Hanno ucciso ancora. Capretti di pochi giorni, strappati via come niente, neanche il tempo di vederli crescere. E poi c’è quella scena che non mi scorderò mai: una capretta presa in bocca da un cinghiale. Era viva. Lui la trascinava via. Io l’ho rincorso, gliel’ho strappata dalla bocca con le mani. Lei urlava, lui grugniva. Io tremavo. Le mancava mezza zampa, ma l’ho cucita, ho fatto il ciclo di antibiotici e si è salvata. Cammina ancora, anche se zoppica».
«Ma io mi chiedo: quante altre volte dovrò fare il veterinario di guerra? – prosegue Mattera –. Quante altre scene così devo sopportare prima che qualcuno apra gli occhi? E non è finita. Ho visto sempre con i miei occhi una capra inseguita, abbattuta e portata via. Se la sono presa, viva. Non si tratta più di scavare e mangiare ghiande. Cacciano, come fanno i predatori. Sono diventati peggio dei lupi. E dico peggio, perché il lupo almeno il cane lo affronta alla pari. Ma il cinghiale no: è tre volte più grosso. E più cattivo. Joy, il mio cane bianco, ci prova, ma non può nulla da solo contro un bestione del genere. E poi c’è Rocco (Andrianò, morto lo scorso primo maggio a 59 anni con la moto impattando contro un cinghiale sulla strada del Monumento ndr). Un amico, un compaesano. Morto per colpa di un cinghiale spuntato all’improvviso in mezzo alla strada. Una curva, una moto, e non c’è più. L’isola è cambiata. Si parla di parchi, di protezione della fauna, ma chi protegge noi? Chi vive e lavora in queste terre lasciate in balia del selvatico? Io non punto il dito. Non cerco colpevoli, ma non possiamo più restare zitti. Serve rispetto. Serve ascolto. Serve azione. Perché questa non è più convivenza, è abbandono. A chi può fare qualcosa, parlo con queste parole. Con rispetto. Ma anche con tutta la forza di chi ogni giorno lotta per non farsi portare via tutto: la vita, il lavoro, la pace».
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