Un medico massese nelle mani di Israele, ore di ansia: «In carcere violenza e aggresività»
Lorenzo Bresciani, 29 anni, si è imbarcato con la Freedom Flotilla. Il portavoce sull’abbordaggio: «Li hanno rapiti»
MASSA. «Un atto di pirateria in acque internazionali». Così Michele Borgia, portavoce italiano della Freedom Flotilla, definisce l’abbordaggio avvenuto mercoledì mattina contro il convoglio umanitario diretto a Gaza. «Prima hanno schermato le comunicazioni, poi è scattato l’attacco alle navi. Un’operazione fulminea, militare». A bordo c’era anche il medico massese Lorenzo Bresciani, 29 anni, di cui da giorni non si hanno notizie dirette: secondo le informazioni raccolte, sarebbe stato trasferito insieme agli altri 145 membri dell’equipaggio in un carcere israeliano noto per la durezza del regime detentivo.
L'abbordaggio e i metodi militari
L'unità di crisi della Farnesina ieri ha poi garantito che i nove italiani al momento detenuti stanno bene, rende noto Borgia, ma la preoccupazione resta alta. Il “crimine” della Freedom Flotilla sarebbe stato quello di portare aiuti e materiali sanitari a Gaza, dove i medici locali lavorano ormai senza strumenti né farmaci. «Erano diretti verso un’area martoriata, per soccorrere colleghi che da settimane chiedevano disperatamente un aiuto». Borgia racconta che la prima azione israeliana è stata oscurare ogni contatto radio, impedendo al convoglio di comunicare con l’esterno. «Avevamo deciso di restare in contatto con le telecamere, ma non hanno avuto il tempo. È scattata una schermatura elettromagnetica, poi gli elicotteri si sono calati sulle imbarcazioni. Hanno tagliato i cavi, spaccato le telecamere». Sulla nave Conscience, la più grande, l’abbordaggio è avvenuto dall’alto, con elicotteri, senza che l’equipaggio potesse neppure indossare i giubbotti di salvataggio: «Un attacco militare in piena regola».
Le testimonianze raccolte dagli avvocati locali parlano di maltrattamenti e violenze. «Strattoni, persone prese per i capelli, tenute in ginocchio per ore sotto il sole, con le mani legate dietro la schiena. I nostri volontari non oppongono mai resistenza, perché sanno che reagire darebbe solo il pretesto per ulteriori violenze», dice Borgia. Ma l’amarezza più grande, aggiunge, è per il comportamento della Farnesina. «Abbiamo informato in anticipo governo e Presidenza della Repubblica, chiedendo protezione per i partecipanti e assistenza in caso di emergenza. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta, e dopo che sono stati rapiti - sì, rapiti, specifica Borgia, perché in acque internazionali questo è stato - non abbiamo avuto alcun riscontro. L’unità di crisi si è attivata solo ieri mattina, dopo nostre sollecitazioni. Un ritardo inaccettabile, specie dopo il precedente della missione Sumud».
Il trattamento in cella
Il portavoce racconta poi che nelle ore a seguire l’arrivo nel porto di Ashdod solo un centinaio dei 145 membri è stato visitato dagli avvocati del gruppo legale che segue il caso. «E già questa è stata una scorrettezza». Nelle ultime ore la Freedom Flotilla ha diffuso un aggiornamento sulle condizioni dei detenuti. Ieri «gli avvocati di Adalah hanno partecipato a oltre cinquanta udienze nel tribunale interno alla prigione di Ktzi’ot, dove sono rinchiusi molti partecipanti alla missione. Hanno potuto visitare alcuni prigionieri, raccogliendo nuove segnalazioni di comportamenti aggressivi e violenti da parte delle autorità israeliane, sia durante che dopo l’intercettazione delle imbarcazioni. Le condizioni restano estremamente precarie, con accesso limitato all’acqua potabile e, in diversi casi, maltrattamenti fisici e verbali».
Borgia riferisce che dal consolato italiano sono arrivate rassicurazioni sulle loro condizioni di salute e l’indicazione che alcuni potrebbero essere rimpatriati già nelle prossime ore. «Ma - precisa - non è ancora dato sapere se tra questi ci sia anche Lorenzo Bresciani».
La Freedom Flotilla era partita in ordine sparso: due barche da Otranto il 25 settembre, il gruppo delle Madleen (tra cui la barca di Bresciani) da Catania il 27 e la Conscience il 30 settembre. A bordo c’erano 18 tonnellate di beni di prima necessità, tra cui 1,5 tonnellate di medicinali. «Avevamo allestito un convoglio medico - racconta Borgia - perché molti dei nostri erano già stati a Gaza e avevano contatti diretti con i colleghi locali. Da mesi ricevevano richieste di aiuto, racconti di interventi chirurgici eseguiti senza anestetici né antidolorifici. Quella barca era nata per loro. Doveva essere una barca d’aiuto, non un bersaglio».