Il Tirreno

Lucca

Il caso

Riciclaggio di soldi della camorra, indagato ex calciatore lucchese

di Pietro Barghigiani
Il 56enne ex calciatore
Il 56enne ex calciatore

Contestata anche l’associazione a delinquere con l’aggravante mafiosa: respinto in Cassazione il ricorso contro gli arresti domiciliari

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LUCCA. Al tempo delle giovanili sui campi della Toscana svettava come un gigante nonostante la corporatura mingherlina. Una promessa mantenuta ai massimi livelli. Ora è accusato di associazione a delinquere con aggravante mafiosa, riciclaggio e intestazione fittizia di beni, nell’ambito di una maxi inchiesta della Direzione investigativa antimafia di Roma.

Giorgio Bresciani, 56 anni, lucchese, talento precoce dell’Atletico Lucca prima di affermarsi nel calcio professionistico (40 gol in serie A) è sotto inchiesta (la Cassazione nelle scorse settimane ha confermato gli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico) dopo essere stato tirato in ballo da un collaboratore di giustizia che lo descrive come un imprenditore pronto a mettersi a disposizione di un clan camorristico (D’Amico-Mazzarella di San Giovanni a Teduccio) con interessi nella capitale per riciclare denaro sporco.

È un’indagine con 57 indagati ancora tutta da valutare nei suoi sviluppi giudiziari. Tra questi anche l’ex calciatore della massima serie (Torino, Bologna, Atalanta, Napoli), ex Nazionale Under 21 (medaglia di bronzo agli europei di categoria nel 1990), ex Siena in Toscana. Da tempo si è stabilito a Bologna (il suo gol al Chievo nel 1996 riportò i rossoblù in A). Chiuso con il calcio giocato nel 2006, ha iniziato a muoversi come dirigente sportivo.

Nelle carte del procedimento c’è il racconto che ha portato il Tribunale della Libertà a confermare gli arresti domiciliari per l’ex calciatore lucchese accogliendo la richiesta del pm della Procura romana. Dagli elementi indiziari è «emerso il ruolo centrale che era svolto dal Bresciani in seno all’associazione per delinquere (in particolare, in quello che era chiamato “il giro dell’Iva”), ruolo che consisteva nel tenere i rapporti con gli imprenditori che si prestavano a bonificare le somme di provenienza delittuosa che avevano previamente ricevuto in contanti, e che il Bresciani stesso ritirava a Napoli – si legge nella sentenza di inammissibilità della Cassazione – Nel concorrere con (omissis, ndr) nel gestire occultamente le società che venivano utilizzate per realizzare le condotte di riciclaggio (tali enti erano amministrati da soggetti che altro non facevano che conformarsi alle indicazioni del (omissis, ndr) e del Bresciani con riguardo alle false fatture da emettere e ai bonifici da effettuare)». Per i magistrati dell’accusa ci sono evidenze su come «il Bresciani fosse ben noto agli esponenti del clan camorristico “D’Amico-Mazzarella”, che aveva in più occasioni incontrato di persona, proprio in ragione delle abilità criminali che gli erano unanimemente riconosciute nel settore dei reati economici e tributari e della sua capacità di assicurare allo stesso clan stabili guadagni mensili. Da ciò la conclusione, del tutto logica, di come il Bresciani si dovesse ritenere sistematicamente coinvolto nelle operazioni di riciclaggio e a disposizione del clan per il compimento delle stesse (come anche il Bresciani aveva detto di essere, cioè «a disposizione», al cospetto di (omissis, ndr)».

A incidere sulla misura cautelare ci sono quelli che la Cassazione inserisce come «precedenti penali del Bresciani per reati della stessa indole (in particolare, tre per bancarotta fraudolenta) e le pendenze giudiziarie (condanna in primo grado per autoriciclaggio; rinvio a giudizio per il reato di truffa aggravata)». Per la Suprema Corte gli elementi a carico dell’ex attaccante danno «ampiamente conto di come le collaudate modalità professionali con le quali il Bresciani aveva continuato a dedicarsi nel tempo, non occasionalmente ma sistematicamente, ad attività di riciclaggio, comprovassero l’effettiva e attuale probabilità della commissione, da parte sua, di condotte reiterative di illeciti similari a quelli per i quali si stava procedendo». Di qui la necessità di fermarlo.

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