Il Tirreno

Livorno

Vincent, Addison, McNamara: che fine hanno fatto le leggende del basket passate da Livorno?

Giulio Corsi
Da sinistra: Rafael Addison sul palco della Syracuse University dopo aver ricevuto l’anno scorso la massima onoreficenza del college. Sotto, Jay Vincent; in alto a destra Barry Mungar, con la divisa da sergente. Sotto di lui Jackie Robinson tra i grattacieli di Las Vegas
Da sinistra: Rafael Addison sul palco della Syracuse University dopo aver ricevuto l’anno scorso la massima onoreficenza del college. Sotto, Jay Vincent; in alto a destra Barry Mungar, con la divisa da sergente. Sotto di lui Jackie Robinson tra i grattacieli di Las Vegas

Da chi si è fatto la galera a chi è tornato a insegnare a scuola o oggi fa il regista: più di venti storie che riannodano il filo dei ricordi di un grande sport

30 dicembre 2018
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Jackie Robinson, stella della Rapident nel 1982-83, continua a coltivare il suo sogno: vuole portare una franchigia Nba a Las Vegas. A Livorno lo ricordiamo vestito da marziano nella PL allenata da Claudio Vandoni mentre manda in frantumi un tabellone con una schiacciata. Negli States oggi è l’uomo d’affari più fotografato sui giornali di Las Vegas.

L’ex campione Nba, che con Seattle vinse l’anello nel 1979, dopo 5 anni in giro tra Livorno, Tel Aviv e Barcellona, a fine anni Ottanta è andato in pensione dal basket ed è tornato nel Nevada dove aveva frequentato il college: lì ha indossato i panni del manager in diverse società di Las Vegas, dall’immobiliare al beverage, poi ha acquistato i Las Vegas Silver Bandits della defunta International Basketball League, e successivamente i Las Vegas Slam dell'American Basketball Association. Ora sta lavorando alla costruzione dell'All Net Resort and Arena, un maxi complesso di hotel, negozi e palazzo dello sport che sorgerà tra il Las Vegas Hotel Casino e la Fontainebleau e che - sogna Robinson - potrebbe essere la base per l’arrivo di team Nba in Nevada. «Sarebbe la ciliegina sulla torta», continua a ripetere ai cronisti che lo intervistano.

Robinson ha presentato il suo progetto nel 2014 e i lavori, seppur a rilento, procedono: i maestosi rendering dell’intervento mostrano un'arena da 23mila posti, un hotel con 500 stanze con l’immancabile cappella per matrimoni, una sala cinematografica e 300mila piedi quadrati di vendita al dettaglio e intrattenimento, già approvati dai commissari della contea di Clark. Costo stimato 1,3 miliardi (!) di dollari. Ma Robinson pensa in grande e adesso ha aggiunto una torre di 2.000 stanze su 63 piani, un centro congressi e una pista da bowling a 24 corsie.

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Se Jackie è l’americano che più ha avuto successo nella sua seconda vita lontana dal parquet, altre stelle (o meteore) degli anni d’oro della pallacanestro livornese oggi sono affermati uomini d’affari. Ricordate Les Craft? Arrivò a Basket Town alla fine di un’estate magica, quella che per la prima volta vedeva le due squadre di Livorno insieme nell’Olimpo del basket. Era il 1986. La Libertas era appena tornata in A1. In casa gialloblù c’era la speranza che Craft potesse incastrarsi nell’ingranaggio della Boston Enichem, formata dai 4 moschettieri italiani e da Rod Griffin, ma dopo solo 9 partite, il pivot bianco cresciuto alla Kansas State University, lasciò l’Italia con le pive nel sacco. La vita grama da gettonaro, “formaggino” l’ha riscattata dopo aver appeso le scarpe al chiodo: oggi vive in una villa a St Petersburg, nella Baia di Tampa affacciata sul Golfo della Florida, e divide il suo tempo tra la sua società che costruisce concessionarie per auto di lusso e la passione per il golf.

Al suo posto in maglia gialloblù arrivò Jeff Cook, il baffo californiano con un passato Nba tra Phoenix, Cleveland e San Antonio, centro atipico che preferiva tirare dall’arco piuttosto che incassare gomitate sotto canestro. Cook oggi ha 62 anni ed è consulente per una società finanziaria inglese, dopo essere stato nel management di diverse società assicurative.

Il primo grande amore del popolo della curva sud fu indubbiamente John Grochowalski: siamo nel 1980, la Magnadyne è in serie A2. Long John arriva quasi trentenne, dopo 4 anni di canestri a raffica alla Chinamartini Torino. Resta a Livorno per due stagioni ed è il leader delle squadre di Roberto Raffaele e Giancarlo Primo. Poi va a Firenze, resta un anno e decide di cambiare vita. Torna negli States, lascia il basket e si mette in gioco nel mondo dell’impresa: dal 1984 al 2002, racconta lui stesso su Linkedin, gestisce un team di 35 venditori per SunGard Planning Solutions, che ha venduto servizi di information technology e di processi aziendali a ben 500 aziende, raggiungendo quote di vendita di 80 milioni di dollari l’anno per 17 anni su 18. Da lì parte la scalata in altre società del settore fino al ruolo di presidente e Ceo della Monarc Business Resiliency.

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Uno dei compagni di squadra di Grocho fu Rick Darnell: oggi vive a Los Angeles, dove è Senior Vice President Business Development della Elite Beverage International Comisario Tequila, colosso internazionale degli alcolici, proprietario di marchi premium come la Comisario Tequila, ma anche dei vini italiani Sensi. Quando non lavora Darnell insegna basket ai bambini svantaggiati nel sud di Los Angeles insieme al suo amico Norm Nixon, ex stella del Lakers e dei Clippers, passato anche a Pesaro.

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È la solidarietà l’altra strada intrapresa da tanti ex stranieri passati da via Allende.

Brad Wright, totem dell’Allibert beffata nei playout del 1989, ha deciso di investire la sua vita a favore dei bambini: oggi è presidente del Children's Adoption Resource Enterprise di Los Angeles che ha fondato. Nel 2012 ha preso un circo e ha organizzato un evento speciale per 1300 bambini disagiati. «Io e mia moglie vogliamo fare qualcosa per i bambini», ha spiegato Wright prima dello spettacolo. «Invece di comprare una macchina, abbiamo comprato un circo». È stato il suo modo di accogliere la figlia adottiva di 3 anni, Melanie, e di mostrarle cosa significa restituire, ha detto il pivot cresciuto a Ucla. «Sono stato molto fortunato a giocare per 15 anni, ora queste persone hanno veramente bisogno del nostro aiuto e io ci sarò».

Rafael Addison, forse l’americano più amato da chi tifava PL, nel 1998 è tornato alla scuola pubblica n. 15 di Jersey City dove era cresciuto e alla Snyder High School dove è diventato un atleta studentesco. Dopo Charlotte, Detroit e il Paok, lui tra i miti di Syracuse, avrebbe avuto un’autostrada di opportunità davanti. E invece il pittore ha voluto ringraziare il suo passato e per 17 anni ha fatto l’insegnante di scuola e di basket restituendo alla sua comunità ciò che gli era stato donato. L’anno scorso ha ricevuto dalla Syracuse la Letterwinner of Distinction, massima onoreficenza dell’Università agli ex allievi che più hanno dato alla società civile.

Anche Wendell Alexis uscì da Syracuse, stesso anno di nascita e di laurea di Addison: la sua immagine arrampicato sul tabellone dopo il canestro di Andrea Forti resterà indelebile per chi c’era, da allora però Wendell ne ha fatta di strada. Con Berlino ha vinto sei scudetti e 3 Coppe di Germania, poi ha intrapreso la carriera di allenatore nel New Jersey fino a quando nel 2010 ha lasciato il basket: oggi è nel management di una società che fornisce assistenza sanitaria.

Era David Wood, in quel finale di stagione magica e maledetta per la Libertas, l’altro stranger dell’Enichem, scelto in corsa dopo il harakiri di Joe Binion. Per il boscaiolo, umile guerriero che leggeva la Bibbia prima di scendere sul parquet e che ancora oggi su Facebook alterna versi del Vecchio Testamento ai video con i canestri dei figli, Livorno fu il trampolino di lancio di una carriera straordinaria e impensabile: Houston, San Antonio, Detroit, Golden State. Oggi Wood vive con la famiglia a Reno, nel Nevada, e vende ville da sogno per un’agenzia immobiliare di lusso.

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Il romanzo di Roderick Griffin, per tutti Rod, prima scelta dei Denver Nuggets nel 1978 dopo essere stato eletto miglior giocatore Ncaa nell’Atlantic Coast Conference, è noto a molti: ancor prima di venire a Livorno aveva scelto l’Italia e la Romagna per amore. Si era innamorato anche di Livorno: la domenica mattina prima delle partite lo vedevi passeggiare sul lungomare di Antignano, il pomeriggio trivellava i canestri con un’eleganza rara. A 40 anni ha preso la cittadinanza e ha continuato a giocare fino alla soglia dei 46 anni, scendendo anche in serie C. Poi ha deciso di fare l’allenatore: Forlì, Roseto, Imola. Ora allena uno dei più importanti settori giovanili di Forlì.

Sfornato dallo stesso college di Rod Superstar, la Wake Forest University, anche Anthony Teachey, che ha vestito prima la maglia dell’Otc poi quella dell’Allibert, ha scelto di invecchiare insegnando basket ai ragazzi, ma soprattutto aiutandoli a crescere: Tony però è tornato a casa, a Goldsboro, piccola città della North Carolina dove era cresciuto, dopo aver lavorato come consulente di crisi a Charlotte e poi con giovani autistici in una struttura residenziale in Virginia. «Ai ragazzi che mi dicono che vogliono giocare a basket chiedo quale sia il loro piano B», spiegava Tony in un’intervista al Goldsboro News Argus al momento di diventare direttore del centro per adolescenti della Goldsboro Boys & Girls Club, dove aiuta gli adolescenti dai 14 ai 18 anni a fare i compiti e sport.

Con i colori dell’Allibert Teachey faceva coppia con uno dei giocatori più forti mai passati da Livorno, Elvis Rolle, ma quella stagione in casa PL fu da dimenticare non solo per il meno 39 passato alla storia dei derby, ma anche per la sfortuna che si accanì con i due black di via Cecconi. Al loro posto arrivarono Larry Boston, mano morbida quanto il carattere, e Barry Mungar, il biancone appena laureato alla Saint Bonaventure University, college cattolico di New York, adocchiato durante l’estate ai mondiali con la canottiera del Canada, con cui poi partecipò alle Olimpiadi di Seul. Terminata la carriera a poco più di 30 anni, Mungar è tornato nell’Ontario ed è entrato in polizia: da 24 anni è sergente ad Hamilton, città affacciata sulle rive occidentali del Lago Ontario. Sua figlia Reece ha seguito le orme del padre, gioca da guardia ed è uno dei migliori prospetti del basket giovanile canadese: due anni fa è stata chiamata dalla Northern Kentucky University.

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«Mandare un giovane in prigione è raramente una buona opzione – commenta oggi il sergente Mungar all’Hamilton News -. Spesso escono con contatti criminali e molta frustrazione. Servono percorsi alternativi».

Chissà che cosa ne pensa Jay Vincent, primo straniero della “fusione”, arrivato a Livorno dopo 10 anni da star dell’Nba e un anno a Milano: nel 2011 è stato arrestato per truffa e si è fatto 5 anni dietro le sbarre del penitenziario di Ashland, nel Kentucky, per frode postale ed evasione fiscale. Lui e un suo complice, hanno raccontato i giornali americani, hanno truffato più di 10.000 persone per una cifra di oltre due milioni di dollari. In carcere Vincent ha scritto un libro dal titolo “United States vs Jay Vincent”: «Ho iniziato a scrivere il terzo giorno in cui sono stato lì, il 2 agosto 2011 e non ho mai guardato indietro. Ho promesso a mia madre che questa è la prima e l'ultima volta in cui sarò in prigione», ha raccontato a Cbs Detroit. Il libro, in vendita anche su Amazon, contiene tra l’altro le lettere del suo coach Jud Heatcote, di Magic Johnson, di Greg Kelser. Uscito dal carcere Vincent ha lavorato per alcuni mesi in un negozio di hamburger.

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L’uomo degli eccessi invece non ha mollato il basket: Sugar Ray, ovvero Michael Ray Richardson, arrivato nella Livorno targata Rum Baker nel 1992 (e poi rivisto negli anni del Basket Livorno), dopo aver smesso di giocare nel 2002 ha allenato 10 anni nelle leghe minori, Albany, Oklahoma, London nell’Ontario. Il suo compagno di squadra Zan Tabak, in panchina ha fatto invece una carriera più folgorante e dopo alcuni anni da vice al Real Madrid ha guidato il Maccabi e il Siviglia, mentre Nenad Trunic ha firmato l’anno scorso un biennale come direttore tecnico dell’Iran .

Ma nel 2017 i riflettori del grande basket americano si sono riaccesi invece su un altro ex gigante passato a Livorno: Mark McNamara. Era il 1985 quando in maglia Cortan arrivò il pivottone bianco che con Philadelphia aveva vinto l’Nba appena due anni prima. Pochissimi però sapevano allora che McNamara nello stesso 1983 aveva fatto parte del cast del “Ritorno dello Jedi”, ovvero Star Wars Episodio VI, come controfigura del leggendario Peter Mayhew nelle vesti di Chewbacca. «Mio cugino ottenne una parte nel film, cercavano un sostituto per Peter, lui raccontò le mie misure e mi chiamarono. Chewbacca aveva una camminata molto particolare, mi hanno fatto camminare e praticare queste scene anche 14 ore al giorno», ha rivelato l’anno scorso McNamara ai giornali americani che lo hanno cercato in occasione del ritorno di Star Wars dopo che il Daily Telegraph aveva rivelato questa storia sconosciuta. E così è emerso che nello stesso 1985 in cui giocava a Livorno, McNamara fece parte del cast di un altro film di fantascienza: "Ewoks: The Battle for Endor”. Tornato negli States, il pivottone californiano disputò poi due grandi stagioni a Philadelphia, passando ai Lakers. Oggi gira il mondo come redattore e regista per una società di produzione di documentari sugli animali, oltre che l’assistente allenatore al liceo di Haines, in Alaska.

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Non sta bene invece Cedrick Hordges: due anni fa la Fossa dei Leoni, covo dei tifosi Fortitudo, ha organizzato una raccolta per acquistare un macchinario che aiutasse l’ex ala dell’Otc a sopravvivere alla grave forma di insufficienza renale che lo ha colpito.

Seguono i propri figli d’arte, Rudy Hackett e Scott May. Rudy, arrivato da Forlì al primo anno di A2 della Libertas con alle spalle qualche apparizione anche ai Pacers, dopo aver chiuso la carriera a Reggio Emilia ha gestito un ristorante a Pesaro con l’ex moglie Katia, poi è tornato negli States, portando con sè il figlio Daniel, italiano nato a Forlimpopoli, che in California è cresciuto cestisticamente e quest’anno è al Cska Mosca. Oggi papà Rudy fa la spola tra la Russia e Los Angeles dove negli ultimi anni è stato nello staff dei Trojan dell’University of South California. Ancor più importante il percorso seguito da Sean Gregory May, che respirò l’aria di Livorno nel 1986 ad appena due anni, al seguito del padre Scott: per lui 7 anni tra Charlotte e Sacramento.

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