Livorno, il primario dopo la missione in Palestina: «Che bello veder tornare il sorriso sul volto dei bimbi»
Il primario di Endoscopia digestiva, Raffaele Manta, è appena rientrato in città: «I più piccoli non comprendono la situazione, gli adolescenti sono già rassegnati»
LIVORNO. Con i suoi occhi ha visto la sofferenza dei palestinesi, ma ha anche colto il sorriso e la gratitudine degli adulti e dei i bambini dopo averli curati. E con le orecchie – attraverso le loro parole – ha sentito il coraggio, ma anche la stanchezza e la rassegnazione di un conflitto che ha cancellato la quotidianità di un popolo già martoriato. Raffaele Manta, 53 anni, potentino di nascita e ormai livornese d’adozione, è il primario di Endoscopia digestiva degli Spedali Riuniti e il coordinatore della rete di endoscopia dell’Asl Toscana nord ovest, ed è appena tornato da Hebron dopo una missione umanitaria in Palestina con Pcrf-Italia, organizzazione di volontariato e onlus che esprime nel nostro Paese i valori di “Palestine Children’s Relief Fund”, Ong palestinese fondata nel 1992 negli Stati Uniti. A guidare la missione è stata la direttrice della Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva del policlinico di Modena, Rita Conigliaro, volontaria di lunga data e membro del direttivo di Pcrf-Italia. Con lei, sul campo, il primario Manta, anche lui volontario da molti anni, e Gian Manuel De Franco, infermiere di terapia intensiva dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Modena.
Tra i profughi di Gaza
Per una settimana, la squadra è stato impegnata in interventi complessi di endoscopia e chirurgia gastrointestinale, affiancando il personale medico e infermieristico dell’ospedale governativo di Hebron in un intenso lavoro di formazione diretta e scambio professionale. «È stato molto emozionante – racconta il dottor Manta – e non lo nascondo, ho provato anche una profonda tristezza: abbiamo risposto alle esigenze dei pazienti, tra cui profughi di Gaza, ma mi addolora tanto vedere le condizioni in cui sono costretti a vivere adesso i palestinesi, un popolo abbandonato a se stesso».
Il motore del volontariato
E così, in sette giorni, il team della missione umanitaria ha potuto comprendere bene cosa significhi vivere e lavorare a Hebron. Non c’è un vero e proprio coprifuoco, ma quando cala la sera quasi nessuno esce di casa. Ovunque, fuori, c’è il silenzio, mentre la strada è spesso interrotta da posti di blocco predisposti dal governo centrale israeliano. «I bambini non vanno a scuola, se non una o due volte a settimana – racconta il medico – mentre in ospedale le risorse sono molto limitate e, di conseguenza, tutto va avanti soprattutto grazie al volontariato di medici, infermieri e operatori socio-sanitari, nessuno di loro si tira mai indietro: viene fuori spesso lo spirito di appartenenza del popolo palestinese, cercando di aiutarsi gli uni con gli altri. La solidarietà è uno dei valori più forti».
Le tappe della missione
La missione umanitaria – partita il 24 ottobre – ha fatto tappa ad Amman, capitale della Giordania, e da lì ha raggiunto Hebron, in Palestina, a circa 70 di chilometri da Gaza. «A quel punto sono stati esaminati i casi clinici ed è stata predisposta la lista operatoria, che ha previsto numerosi interventi – prosegue Manta – . Abbiamo trascorso una settimana all’ospedale di Hebron e lì abbiamo eseguito una decina di procedure terapeutiche avanzate sulle vie bilio-pancreatiche anche con la collaborazione dei radiologi interventisti, cinque procedure avanzate di endoscopia terapeutica del tubo digerente di pazienti destinati a chirurgia demolitiva-mutilante, una decina di consulenze sul management clinico di casi complessi e poi ci siamo dedicati alla parte clinica e diagnostica. Abbiamo anche fatto programmazione con la direzione sanitaria dell’ospedale per sviluppi di collaborazione in futuro e, infine, partecipato all’attività didattica dei colleghi palestinesi nei confronti dei medici specializzandi e infermieri».
Gratitudine e voglia di ricominciare
Urgenze di ogni tipo, sofferenza e voglia di ricominciare. Sono tante – e tutte diverse – le emozioni che hanno accompagnato il team di Pcrf-Italia. «Abbiamo tenuto duro, sempre, nonostante le limitazioni di ogni giorno – aggiunge il primario – . È stata una grande emozione sentirci dire: “Grazie perché ci fate sentire vivi come persone e come popolo. Grazie Italia”. Tutti, lì in ospedale, sperano che la pace esista e che si creino le condizioni politiche per cui la situazione della Palestina possa migliorare».
Il dottor Manta ha curato gli adulti, feriti nell’anima oltre che nel corpo, e ha giocato con i bambini, regalando loro un sorriso: ha fatto loro indossare il camice bianco e consegnato nelle loro piccole mani lo stetoscopio. «I bambini sembrano quasi ignari della situazione, si accontentano del poco che hanno – aggiunge il direttore di Endoscopia digestiva – . Gli adolescenti, invece, sanno quello che sta succedendo: da una parte sono rassegnati, dall’altra sono arrabbiati. Eppure ho avuto la sensazione che, a questo punto, la rassegnazione vada oltre la rabbia. Desiderano soltanto vivere in pace».
Un popolo coraggioso
Lo ha imparato in questi giorni e ora sente il dovere di raccontarlo. «I palestinesi sono un grande popolo – sottolinea Manta – . È coraggioso, ama la propria terra e le proprie tradizioni e ripudia la guerra. Per questo sono venuto via con un pensiero fisso e un dolore nel cuore: non posso pensare che esistano delle persone, una minoranza per la verità, che hanno come unico scopo quello di deportare una popolazione, una gens nel senso etimologico latino, dunque radicata a un posto. È come quando un pugile è sul ring, dà e riceve. Poi, a un tratto, viene messo ko e quando l’avversario alza la bandiera bianca, l’avversario si accanisce mentre è a terra, dando ancora dei pugni, se possibile più forti. Ecco, questa è l’immagine plastica dei palestinesi (il pugile a terra indifeso) e Israele (che non smette di colpire), tuttavia non voglio generalizzare». Ora l’obiettivo è di ritornare entro un anno. «Ma tutto dipenderà dalla situazione laggiù – conclude il primario – . Intanto voglio ringraziare la mia famiglia, mia moglie Alissa, mia grande forza, e i miei figli. E i miei collaboratori, medici, infermieri e Oss che, in questa settimana in cui sono stato a Hebron, hanno dato il massimo in corsia. E ovviamente il grande cuore dei dirigenti dell’Azienda sanitaria per la quale lavoro che hanno compreso fin da subito l’importanza di questa missione umanitaria e mi hanno sostenuto».

