Tommaso Nigiotti: "Caro fratello, t’abbraccio dopo più di 70 anni dalle pagine del Tirreno"
Livorno, disperso in mare durante la guerra: affondata la sua nave. «Mia madre non ha mai smesso di sperare che tornasse»
LIVORNO. «Non c'era volta che suonasse il campanello e mia madre non sentisse in fondo al cuore l'idea che alla porta fosse il figlio Atride: mai smarrita la speranza. Neanche a dieci o venti anni di distanza dal giorno in cui è arrivata la lettera della Regia Marina per dirci che era disperso in mare». A questo punto gli effetti speciali della regia dovrebbero mandare il “drìiiin” e un flashback con il volto della donna prima sorpreso e poi raggiante prima di stringere al collo. Ma il lieto fine sta solo nei film di Frank Capra o sul set tv di “Carramba”, nella vita vera no: e Atride è giù negli abissi del Mediterraneo da quel 12 ottobre 1940 in cui gli inglesi affondarono il cacciatorpediniere Artigliere.
Fra pubblicità e sentimento. Il groppo a mezza gola, non ce l'ha solo il cronista che sente raccontare questa storia. Ce l'hanno avuto tanti di quelli che sul Tirreno di ieri hanno posato gli occhi su una pagina pubblicitaria davvero fuori dal consueto: non un prodotto in supersconto né un marchio da reclamizzare, solo un abbraccio a 72 anni da quel sabato mattina maledetto che portò via per sempre «il nostro Atridino» dai giochi di Tommaso quattordicenne e Cesare che di anni ne aveva appena una dozzina. Sono loro due, ora ultraottuagenari, a mandare tramite Tirreno questa testimonianza d'affetto al fratello maggiore che non hanno più avuto al fianco. Sotto la foto di Atride che è quasi un monumento all'esuberanza giovanile per come si arrampica sulle sartie di una nave, ecco un saluto che vale un abbraccio: «Avevi poco più di vent'anni. La Regia Marina ti dette “disperso”, mamma ti ha aspettato tutta la vita. I tuoi fratelli, Tommaso e Cesare, vecchi rincoglioniti ti ricordano con immutato affetto».
Con affetto, senza retorica. «Dovevo proprio farlo, era da tanto tempo che me lo dicevo e adesso che il nostro fratello l'abbiamo ricordato così mi sento meglio: rasserenato, pacificato. Sì, ho fatto la cosa giusta». Niente meglio della voce tranquilla di Tommaso Nigiotti rende ragione di questo sentimento d'amore fraterno, di questo gesto gratuito che lui e Cesare hanno regalato a tutti noi livornesi. Un amarcord con piglio tutto labronico che, invece di abbandonarsi alla lacrima, ha la forza di trasfigurarsi nell'ironia di quel «rincoglioniti» che sgombra il parabrezza da ogni retorica.
I Nigiotti sono una dynasty che ha un cognome doc nella storia del commercio della nostra città. Quasi un romanzo: a partire dal bisnonno Tommaso Aquinati, garibaldino alla spedizione dei Mille. «Io non l'ho conosciuto – dice – ma ho conosciuto la moglie, mia nonna: aveva capelli bianchi e occhi neri come il carbone. In casa teneva libero Cecco, il “passerotto briao”: faceva colazione con lui, gli dava pane inzuppato nell'acquavite e lui lo becchettava».
Ma mentre un ramo della famiglia faceva il grossista di frutta e verdura («li chiamavano i trucconi di piazza, compravano i prodotti dai contadini e li rivendevano»), la dinastia si è occupata principalmente di commercio di pesce. Tommaso però no: lavorerà nei giocattoli fino a diventare direttore vendite Europa di un colosso come la Ratti & Valenzasca («facevamo seimila bambole al giorno»); ora con i figli è in società con Enrico Preziosi, il patron del Genoa, ed è presente a Livorno tanto con Toys che con Regalgioca.
Io, fra i giocattoli. «Tutto è nato dal fatto che la famiglia di mio cognato, rappresentante di giocattoli fin dal 1903, mi aveva chiesto di dargli una mano. Gliene ho date anche due, finché l'azienda mi chiama e mi offre un lavoro». Gavetta? Tanta, tantissima: mangiando pane e chilometri. «Andavo a vendere giocattoli nella Sardegna del dopoguerra, con la minaccia dei banditi che non ti dava pace. Ma quella è una terra che ho sempre amato tanto, e i briganti non mi facevano paura né lì né sul Bracco quando invece dovevo battere la Liguria». La grinta di uno che non ha dimenticato la gavetta degli inizi non lo lascia nemmeno quand'è ormai un tipo potente nella geografia dell'industria delle bambole: «Nella Germania dell'Est ero l'unico occidentale che poteva parlare a tu per tu con la potentissima capa di tutto il settore: che colpo, quella volta che riuscii a far accettare di pagare in marchi anziché in dollari. Ci avevano provato i giganti della grande distribuzione e non ce l'avevano fatta…».
Tommaso Nigiotti è davvero un fiume in piena: non c'è solo una sventagliata di aneddoti, è il racconto di una vita che è anche un modo di intendere il mondo. Ad esempio: «Sono religioso ma francamente i preti non li posso vedere granché». E poi: «Fossi il premier Monti butterei a mare il debito pubblico, faremmo una figura barbina agli occhi del mondo ma almeno non bruceremmo più il futuro dei nostri nipoti». Ancora: «Il peggio deve ancora venire, e non parlo solo dell'economia: ma lo vedete che a destra e a sinistra, sopra e sotto, non c’è niente che non sia l’arraffatutto». La famiglia, ecco cos'è che lo rende contento, dice raccontandosi nelle vesti di patriarca «nella mia casa di campagna a Riparbella», tutte le volte che è possibile ritrovarsi per una bella tavolata «con più di venti persone». È un ex top manager ora coltivatore diretto: «Sì, a 86 anni faccio il contadino. Qualche ora fa ero sul mio trattore perché avevo da trasportare i tini. Comprare un pezzo di terra? Fossi matto, avevo detto a uno dei miei figli. Poi di quell'angolo di campagna me ne sono innamorato…».
Il cassetto si riapre ora. Eppure dietro una esistenza «sempre in moto e felice», bussa il fantasma di questo fratello rimasto poco più che ragazzo dentro il cassetto della memoria. «Proprio la vita vissuta tutta d'un fiato sembra che ti porti lontano ma, quando sei più vecchio e dormi poco, rimugini su quel che è stato, su quel che sarà, su quel che poteva essere. Ho pensato a lui, Atride: ho sentito che gli dovevo qualcosa. E l’ho fatto sul Tirreno».
«Lo sa da dove viene il nome del mio fratellone maggiore? Dal fascino che in casa mia aveva la cultura greca». Saffo era il nome della nostra sorella più grande, morta anni fa. Atride era il patronimico di eroi come Agamennone e Menelao…
Neanche la speranza. «Quand'è sparito inghiottito dal mare, Atride si era appena sposato: di lì a poco sarebbe diventato babbo, la moglie era in attesa di un bebè. Faceva l'elettricista nel magazzino all'ingrosso che un nostro zio aveva in fondo a via dell'Angiolo. Se in guerra dicono che tuo fratello risulta disperso in una azione militare terrestre, la speranza forse ha qualcosa alla quale aggrapparsi. Se invece, com'è accaduto per Atride, sei disperso in mare l'unica cosa in cui puoi sperare è che ti diano un corpo sul quale piangere. Me lo sono chiesto tante di quelle volte: è morto davvero per la patria o è stata la patria a portarmelo via e non restituirmelo più?".
L'interrogativo resta appeso a un dolore sordo che si avverte aver attraversato per giorni, mesi, anni e decenni gli occhi chiari di quest'uomo che ha «girato il mondo ma sempre in macchina, anche tagliando in due l'Europa, perché avevo paura dell'aereo». Una ciliegia tira l'altra, e così dev'essere per i punti di domanda. Ecco un altro flash: «Siamo sfollati a Cascina a casa dei Bresci, quelli dei vini. Una voce passa di casa in casa: occhio, arrivano i tedeschi. Mia madre mi dice di scappare giù per le vigne. Ma è proprio lì che mi becca uno delle Ss. Mi chiede quanti anni ho, invento una bugia e mi tolgo due anni per sfuggire al rastrellamento. Prima che abbia modo di squadrarmi bene e accorgersi che ho cercato di imbrogliarlo, lo chiamano per correre altrove. Sono salvo per miracolo: se lo immagina quale rimorso avrebbe avuto mia madre se mi avessero portato via perché avevo seguito il suo consiglio?».
Cuori di mamme. Ma l'immagine della divisa nazista ripesca dall'album dei ricordi un altro fotogramma. Dedicato alla madre e a Atride: «La porta di casa nostra era sempre spalancata, tanto per chi vestiva la divisa alleata che se avesse bussato un soldato tedesco. La mia mamma non avrebbe mai negato un piatto di minestra. Diceva: spero che se Atride bussa a una casa chissà dove ci sia anche lì una mamma che gli fa due spaghetti».