Grosseto, molestie sul posto di lavoro: la condanna è confermata. La donna nel frattempo è stata licenziata
Anche un secondo giudice ritiene sussistenti le discriminazioni
GROSSETO. Anche un secondo giudice ha ritenuto sussistenti le molestie anche sessuali sul posto di lavoro e il comportamento discriminatorio di cui era rimasta vittima una donna, dipendente di un’associazione. La giudice Silvia Leone ha respinto il ricorso presentato dall’associazione e ha confermato il decreto del giudice del lavoro Giuseppe Grosso, che nel maggio 2024 aveva anche condannato il sodalizio a pagare 10mila euro; adesso si aggiungono le spese di lite per quasi 4mila euro.
Giulia (nome di fantasia, a tutela della vittima) aveva lamentato che gli apprezzamenti non graditi le erano giunti da parte del presidente quando stava svolgendo le proprie mansioni nella sede dell’associazione, che si trova in provincia (anche di questa non facciamo il nome per non rendere riconoscibile la vittima): le era arrivata una pacca sul sedere con relativo apprezzamento. Non sarebbe stata la prima volta, ci sarebbero stati espliciti inviti ad avere rapporti sessuali e commenti dello stesso tenore, rivolti anche al modo di vestirsi e di muoversi della donna. Assistita dall’avvocata Silvia Muratori, Giulia si era rivolta al Tribunale, lamentando la violazione del Codice delle parti opportunità. E si era vista riconoscere le proprie ragioni.
La sentenza, tra l’altro, giunge alla vigilia di un nuovo appuntamento al palazzo di giustizia, ma per altro motivo, un ricorso promosso dalla stessa donna e da una sua collega, che nel frattempo sono state licenziate e hanno impugnato i provvedimenti ritenendoli ritorsivi: due procedimenti che corrono paralleli tra di loro ma che non sono unificati, uno dei quali sta già arrivando alla fase dell’audizione dei testimoni.
La giudice Leone ha riconosciuto la correttezza delle argomentazioni del collega di prima fase e ha respinto anche le eccezioni, ritenendole infondate, avanzate in questa seconda fase dall’associazione. La quale si era opposta al decreto, ritenendo violate le norme sul diritto di difesa, che vi fosse stata un’erronea valutazione degli elementi probatori e della ricostruzione dei fatti e infine che la condanna al risarcimento fosse ingiusta e comunque eccessiva. Secondo la dottoressa Leone, il fatto che Giulia abbia instaurato un nuovo giudizio (quello per il licenziamento lamentato come ritorsivo) chiedendo un risarcimento per mobbing non comporta una rinuncia alla base del ricorso: «Trattasi, infatti, di fatti del tutto diversi. La condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo, cosiddetto mobbing, si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria e molesta». Un giudizio diverso, temi diversi. Non è ravvisabile alcuna rinuncia all’azione.
Né, ancora secondo la giudice Leone, vi è stata violazione del diritto di difesa e diritto alla prova a danno dell’associazione: questo motivo di opposizione era ancorata anche a indagini preliminari di carattere penale, i cui atti erano stati acquisiti dal primo giudice ai fini di una valutazione complessiva, e alle dichiarazioni rese dai testimoni. L’associazione, comunque, «neanche in tale sede, ha fornito alcun elemento di prova volto a dimostrare l’inesistenza delle condotte di molestie», perché sarebbero stati proposte circostanze «del tutto irrilevanti e finalizzate a screditare la donna, quasi a voler provare una volontà accondiscendente della stessa ai comportamenti offensivi e umilianti del presidente»; capitoli di prova non ammessi dal giudice della prima fase e non ammessi nemmeno nella seconda.
La giudice Leone ha ritenuto infondato anche il terzo motivo di opposizione presentato dall’associazione, cioè quello relativo all’ingiusta ed eccessiva condanna: «Condivisibilmente – ha aggiunto tra l’altro - il giudicante ha equitativamente quantificato il danno non patrimoniale in 10mila euro, avendo tenuto conto della durata delle molestie, della loro ripetitività, del richiamo alla sfera sessuale delle stesse, del ruolo apicale del soggetto autore all’interno dell’associazione, della prevedibile intensità del disagio e della sofferenza che le condotte hanno generato e della diffusività della notizia. In tutta evidenza, l’atto discriminatorio è lesivo della dignità umana ed è intrinsecamente umiliante per il destinatario e ciò sorregge adeguatamente l’esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa, esercitato, si ripete, correttamente, nel caso di specie», ha argomentato in conclusione.
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