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Vini affinati in mare, perché il progetto nato in Toscana può essere una svolta: cosa dicono gli esperti

di Sara Venchiarutti

	Le bottiglie affinate in mare
Le bottiglie affinate in mare

Il titolare dell’azienda spiega i dettagli. E c’è un’importante scoperta che riguarda i solfiti e la conservazione

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SCARLINO. Non antiche mura di pietra o nuovissimi spazi tecnologici dove i vini s’affinano per poi stuzzicare palati, ma fondali sabbiosi e la luce ovattata che filtra nelle profondità del mare, a quattro miglia dalla costa, in mezzo ai porti di Punta Ala e Scarlino. Lì c’è una vera e propria cantina sottomarina. Le bottiglie che ne escono portano i segni degli abissi, alghe e conchiglie che lasciano l’impronta unica del territorio sulle superfici di vetro. «Ci sono tutte le tipologie di vini, anche se abbiamo notato che questo metodo si adatta maggiormente a quelli più strutturati», dice Enrico Corsi, titolare dell’azienda agricola vitivinicola La Cura, in località Cura Nuova a Massa Marittima, con le vigne – 28 ettari sui 200 totali – che si estendono tra la città del Balestro e Scarlino. Sono le sue le bottiglie nella cantina sommersa, studiate da circa quattro anni all’interno di un progetto che ha come referente per la parte enologica la professoressa Angela Zinnai, del dipartimento di scienze agrarie dell’università di Pisa.

Il progetto

«Abbiamo deciso di presentare questo progetto all’ateneo – spiega Corsi – per paragonare il vino invecchiato in cantina con quello conservato sotto al mare». Sott’aria o sott’acqua, detto in poche parole. Di cantine simili nel golfo di Follonica non ce ne sono. «Almeno che io sappia», precisa Corsi. Ora quei vini sono allo studio, non vengono venduti. Il punto adatto per portare avanti la ricerca è stato individuato con precisione. «Abbiamo studiato un luogo – spiega Corsi – che fosse a una certa profondità per avere tutte le condizioni fisiche giuste per la conservazione, diverse dall’aria. Temperature e luce, filtrata dall’acqua e non assente come in cantina, sono completamente diversi. Lo scopo è trovare delle formule matematiche che spieghino come mai il vino in mare cambia rispetto alla cantina».

Il mare

E sì, alla fine si può dire che il mare caratterizza il vino. Tutto sta nel capire come e perché. «Quando siamo partiti lo studio – che oltre all’azienda e al dipartimento UniPi unisce la Provincia di Livorno, il Comune di Scarlino, la sezione di Pisa dell’Istituto nazionale di fisica nucleare – era totalmente pionieristico. Alla base – spiega la professoressa Zinnai – c’è un lavoro multidisciplinare: noi tecnologi alimentari ci occupiamo della parte enologica, ma abbiamo bisogno dell’ausilio di fisici, ingegneri, farmacisti». Il primo problema che gli studiosi si sono posti riguarda un dato emerso dall’osservazione dei vini sommersi. A cambiare infatti, e non di poco, è la componente fenolica. «Quelle molecole del vino – sottolinea Zinnai – hanno tantissime proprietà positive: sono antiossidanti, antitumorali». Se piccole al palato sono percepite come amare, mentre a mano a mano che crescono diventano astringenti e infine morbide al palato.

Gli esperti

Bene, nel vino sott’acqua «abbiamo notato – continua la referente – una diversa velocità della componente fenolica: se in cantina per svilupparla ci vuole da un anno a cinque -anche decenni per i rossi più strutturati -, invece sott’acqua questo processo procede con una velocità molto maggiore, almeno di tre, quattro volte superiore. Realizzando prelievi tutti i mesi, abbiamo individuato come ottimale un periodo di affinamento in mare di circa 12 mesi». Tutto sta nel capire perché, quali sono, cioè, i parametri «da cui dipende il processo per poterne fare un utilizzo adeguato». A venire “in soccorso” i fisici, che hanno messo a punto dei sensori in grado di valutare la pressione dentro le bottiglie. Nemmeno questo passaggio è stato facile, visto che si parla di sensori miniaturizzati in grado di entrare nel collo delle bottiglie in modo non distruttivo, senza quindi alternare alcun parametro, per misurare i dati in un lungo periodo. Poi l’ostacolo è stato superato e quindi eccoli dentro alcune bottiglie “civetta”. All’inizio tutti sospettavano che c’entrasse qualcosa la diversa pressione tra cantina “terrestre” e marina. Ma i risultati finali non sono stati d’accordo.

«Dentro le bottiglie, impermeabilizzate per non fare entrare l’acqua, la pressione – spiega Zinnai – rimane la stessa dell’ambiente esterno. Come in un sottomarino». La “colpa” in realtà è proprio delle bottiglie. «Visto che sono impermeabilizzate nei confronti dell’acqua – prosegue la professoressa –, lo sono anche dell’aria, e quindi si crea un meccanismo di scambio su cui agisce anche la temperatura: quando questa si abbassa, l’ossigeno sciolto nel vino aumenta; quando si rialza, l’ossigeno viene consumato durante il processo di affinamento. Quando scende, si ricomincia. Questo avviene un tot di volte. Così viene favorita l’evoluzione del vino».

E i solfiti?

Ma così si è arrivati anche a un’altra importante scoperta: nella cantina subacquea si può evitare l’aggiunta di solfiti. In pratica «possiamo ottenere un sistema di affinamento di vino senza solfiti, valutato sempre come il migliore e anche a lunga conservazione», sottolinea Zinnai. Poi l’altro obiettivo, perché no, è dare vita alla fine dello studio a una cantina marina «innovativa e ragionata», sottolinea Corsi. Tanto più che ora «questo progetto, a cui – aggiunge Zinnai – abbiamo dato il nome di “Tiramisù”, è stato presentato a livello europeo ed è stato ammesso al finanziamento: avremo quindi i fondi per mettere insieme le informazioni raccolte e fare il passo successivo, renderlo un sistema produttivo», annuncia con una certa emozione Zennai, visto che l’accesso ai fondi è notizia recente.

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