Venator scrive agli azionisti: «Senza sito di stoccaggio si chiude». A rischio 250 dipendenti
Scarlino, rimane poco più di un mese per sapere se il settore Ambiente della Regione Toscana autorizzerà l’utilizzo dell’area vicina all’impianto
SCARLINO. A questo punto non ci sono più dubbi, e di conseguenza nemmeno alibi. Per nessuno. Ieri il Gruppo Venator ha pubblicato online il “report sul quarto trimestre 2022 e sull’intero anno scorso, oltre che sull’andamento della revisione strategica in corso per affrontare la sfida del contesto macroeconomico”.
E la notizia è che per l’impianto di Scarlino che produce biossido di titanio (TiO2), non ci sono affatto buone notizie. Soprattutto per i dipendenti dell’azienda e per quelli dell’indotto, a rischio concreto di perdere il lavoro.
Le carte
Quasi alla fine del report, poco prima delle tabelle economiche riassuntive, infatti, il passaggio relativo alla fabbrica del Casone di Scarlino recita testualmente: «Continuiamo a far lavorare il nostro impianto di Scarlino a un terzo della sua capacità nominale di produzione di 80.000 tonnellate (di biossido di titanio, ndc) per ridurre il tasso di produzione del gesso (rosso). Al ritmo operativo attuale, presto avremo una capienza (di stoccaggio) insufficiente per il gesso prodotto e di conseguenza prevediamo di interrompere la produzione durante il secondo trimestre del 2023. Se non riceveremo l’approvazione (dalla Regione Toscana) per la capienza aggiuntiva di stoccaggio del gesso entro la fine del primo trimestre del 2023, potremmo chiudere definitivamente il sito e successivamente sostenere costi associati di chiusura del sito».
Parole esplicite e inequivocabili che la società mette nero su bianco per rendere noto a soci e investitori quali sono i rischi rispetto alla redditività aziendale. Stando così le cose, rimane poco più di un mese per sapere se il Settore ambiente della Regione Toscana autorizzerà o meno l’utilizzo di un’area di 40 ettari adiacente all’impianto di Scarlino per lo stoccaggio “preliminare” dei gessi rossi, lo scarto di produzione del processo industriale di estrazione del biossido di titanio.
Area bonificata negli anni Novanta dalle ceneri di pirite e oggi di proprietà del Comune di Scarlino, che ha già pronta la convenzione con l’azienda per l’utilizzo del terreno. A metà dello scorso mese di dicembre, infatti, in seguito a una riunione tenutasi a Firenze, c’era stato un sopralluogo nell’area da parte del direttore di Arpat Pietro Rubellini, accompagnato dagli assessori regionali Monia Monni (ambiente) e Leonardo Marras (attività produttive), in conseguenza del quale era stato detto che orientativamente l’autorizzazione, salvo verifiche tecniche puntuali, avrebbe potuto essere concessa in 45/60 giorni. Successivamente, a seguito delle indagine geotecniche, l’azienda ha presentato la propria richiesta nella speranza di ricevere velocemente il via libera all’utilizzo dell’area.
L’iter
Lo stoccaggio preliminare (per un massimo di tre anni, ndc) dei gessi in quei terreni è essenziale per consentire a Venator di tornare a far marciare l’impianto almeno con due linee di produzione e recuperare così redditività, nelle more dell’individuazione di un sito di stoccaggio definitivo e della realizzazione dell’impianto di essiccazione dei gessi autorizzato a Ferro Duo Italy. Questo a causa del fatto che al massimo entro l’inizio dell’estate sarà esaurito lo spazio di stoccaggio dei gessi rossi nell’ex cava di Poggio Speranzona, situata in località Montioni nel Comune di Follonica.
Nel caso in cui l’autorizzazione non arrivasse in tempo utile – scrive agli azionisti nella sua relazione l’amministratore delegato Simon Turner – Venator è evidentemente intenzionata a chiudere definitivamente l’impianto di Scarlino, prevedendo le spese conseguenti alla chiusura dell’attività.
Gli scenari
Questo significherebbe la perdita del posto di lavoro per gli attuali 248 dipendenti diretti di Venator, 80 dei quali stanno facendo turnazioni di cassa integrazione in seguito al blocco di due delle tre linee di produzione del biossido. Dipendenti ai quali si aggiungerebbero tutti quelli delle aziende che lavorano nell’indotto. Più o meno altre 150-200 persone. Uno scenario che si prefigura come un incubo, ma che incombe oramai da qualche anno. Salvo il fatto che oggi si materializza come una ipotesi davvero concreta con il report sul quarto trimestre. l
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